Léo Moulin - L'inquisizione sotto inquisizione.

Qui può scrivere chiunque trovi dei testi adatti alla formazione dei Grissini. Le cose che lo staff riterrà più idonee a tal fine saranno successivamente inserite nella sezione "Per la formazione".

Moderatore: berescitte

Léo Moulin - L'inquisizione sotto inquisizione.

Messaggioda GrisAdmi » sab gen 05, 2008 4:03 pm

INTRODUZIONE

La lotta contro le sette medioevali

E' evidente, o più esattamente dovrebbe essere evidente, che non ho la minima intenzione di fare l'apologia della Inquisizione, e nemmeno di difenderla.
Non ho alcuna simpatia per i tribunali speciali, quand'anche fossero creati per difendere lo Stato e la Società. Ancor meno nel caso della Religione.
Così pure condanno fermamente ogni forma di censura e di indice di libri proibiti, anche se come sociologo so che, a meno d'essere anarchico - e non è il mio caso - ogni società, di qualunque genere sia, deve potersi difendere contro coloro che minacciano, più ancora che la sua esistenza, le sue ragioni d'essere, i suoi valori, la sua anima.
Ciò che mi propongo di fare è di studiare attentamente, obiettivamente, dal punto di vista sociologico e storico, questa sorgente di leggende che è divenuta l'Inquisizione.
Si tratta di procedere ad un esame, il più radicale possibile, il più rigoroso e "disincantatore", per riprendere un termine del grande sociologo tedesco Max Weber (1846-1920); un esame, cioè, animato dalla volontà di dissipare le immagini menzognere (non conformi allo stato attuale delle nostre conoscenze) che il nome stesso di Inquisizione non manca di suscitare e capace di fornire, per quanto è possibile, un "inventario dei luoghi" esatto e preciso.
Per fare ciò mi porrò le seguenti domande: "perché un'Inquisizione? E come funziona?"
Procederò mettendo in luce una serie di fatti caratteristici, di dettagli quotidiani, tipici di una mentalità o di un certo genere di vita. Spero, così, di rendere le pagine seguenti più attraenti e, soprattutto, di non perdermi in considerazioni astratte, cioè di non allontanarmi dalla realtà e dalla verità per permettere così al lettore di farsi un'idea più esatta, perché più concreta, dell'inquisizione.


L'Inquisizione dei tempi moderni

Prima, però, di entrare nel vivo della questione, occorre che io accenni alle origini dell'Inquisizione dei tempi moderni, comunemente chiamata "Spagnola o Romana".
La sua immagine, sempre presente negli scritti - o peggio, la sola presente - falsa irrimediabilmente ciò che si può dire dell'inquisizione medioevale.
Infatti l'Inquisizione moderna non ha niente in comune (se non il nome e le procedure) con quella medioevale. Essa è diventata una polizia di Stato al servizio dei Re, dei Papi, dei Principi, che difende, se non sempre i loro interessi, almeno la loro visione del mondo: centralizzatrice, unificatrice e secolarizzante, ben lontana in ciò dalla visione medioevale che accetta la diversità, l'eterogeneità e le "innumerevoli libertà" di cui paria Karl Marx.
Il Medioevo non è altro che "oscurantista" e il Rinascimento luminoso solo per un pugno di principi, di letterati, di umanisti, di artisti e di pittori che non cessano di lodare la loro epoca e la società in cui vivono, da loro vista come una "rinascita" dopo la "morte" che l'aveva preceduta.
In realtà, agli occhi degli specialisti di quest'epoca (Delumeau, per esempio) il XV, il XVI e i secoli immediatamente successivi, sono segnati da terribili traumi: religiosi, politici, sociali, culturali e morali. E' l'era delle guerre di religione, delle grandi paure, delle feroci intolleranze, dei processi di stregoneria (Newton, il grande Newton, uno dei padri dello spirito scientifico moderno, scrive un trattato di demonologia), del controllo sospettoso e permanente di tutte le attività religiose, artistiche e intellettuali, come capita quando una società si sente colpita e minacciata nel suo essere (società che, per di più', sogna di assicurare l'integrale assimilazione degli elementi "diversi", come i Marrani, gli Ebrei, i Mori). Da qui i processi a Galileo, Giordano Bruno, Campanella e molti altri.
Uno degli uomini che meglio ha intuito fino a che punto l'epoca moderna avesse distrutto e traumatizzato i rapporti umani e' stato, fatto stupefacente, Karl Marx.
Nel "Manifesto Comunista" del 1848, egli denuncia violentemente l'azione distruttrice di quella che chiama "la borghesia, forza progressista e rivoluzionaria". Egli scrive: "tutto ciò che è sacro viene profanato (...) Essa ha spogliato della loro aureola tutte le attività - quella del prete, del medico, del sapiente, del poeta - fino ad allora rispettate". E ancora: "i legami che univano l'individuo al suo naturale superiore, l'uomo all'uomo, essa li ha recisi impietosamente. I fremiti sacri delle esaltazioni religiose essa li ha annegati nell'acqua glaciale del calcolo egoista".


Tale è stato l'impatto con i tempi moderni.

Gli storici del secolo scorso hanno fatto a gara nel diffamare l'Inquisizione. Il soggetto si presta, bisogna riconoscerlo, soprattutto nella sua forma spagnola o romana. L'ottimismo sciocco della Belle Epoque immaginava che le persecuzioni, di qualunque natura fossero, appartenessero definitivamente ad un passato particolarmente oscuro. Il progresso avrebbe radiato per sempre la tortura dagli strumenti della giustizia umana. Anche le pene di detenzione sarebbero andate verso una maggiore umanità, fino a scomparire completamente. "Aprite una scuola - affermava Victor Hugo - e potrete chiudere una prigione". E così via.
Ritorniamo ora all'Inquisizione spagnola, per finire in fretta con questo che è un elemento estraneo alla nostra riflessione ma che malgrado tutto è presente nello spirito, e capace di falsare del tutto la nostra percezione dell'inquisizione medioevale. Facciamo tuttavia notare che anche la terribile e onnipresente Inquisizione spagnola- e malgrado la pubblicazione, per sua sollecitudine, tra il 1569 e il 1790, di una decina di "Index Librorum Prohibitorum" - non ha per questo impedito al "Siglo de Oro" della cultura spagnola, il XVII, di svilupparsi e di dare all'Europa una messe di frutti tra i più straordinari della sua storia. Citiamo:

- per la letteratura: Garcilaso de la Vega, Luis de Leòn, Lope de Vega, Baltasar Graciàn, Luis de Gòngora, Francisco Quevedo, Mateo Alemàn, Miguel de Cervantes;

- per il teatro: Tirso de Molina, Lope de Vega, Calderon de la Barca;

- per la pittura: Velasquez, Murillo, Zurbaran, El Greco, Goya;

- per la mistica: Fray Luis de Leon, S. Teresa d'Avila, S. Juan de la Cruz;

- per la musica: Tomàs Luis de Victoria, Antonio de Cabezon, Guerrero;

- per la teologia: Suarez.

Galileo, figura emblematica come poche altre (diciamo, di sfuggita, che egli non ha mai pronunciato la storica frase "Eppur si muove"), vide la sua pena commutata dal Papa il giorno stesso della sua condanna. Gli si assegnò, per dimora, non una prigione, come vuole la leggenda, ma il palazzo del Gran Duca di Toscana - la villa Medici - e, più tardi, l'Arcivescovo di Siena Piccolomini gli offri una sontuosa ospitalità.


Le regole della ricerca storica

Si è mancato gravemente contro le regole della ricerca storica: sono state ignorate le fonti; si sono proiettate la sensibilità, le illusioni, le speranze di un secolo, il XIX, su un passato certamente brutale e sanguinario, ma anche umano e luminoso; si sono utilizzati materiali appesantiti e minati da innumerevoli anacronismi per fini ideologici e, più spesso, polemici; ci si è fidati troppo delle proprie conclusioni. Noi abbiamo cercato, in questo piccolo saggio, di farci un'immagine un po' più chiara e un po' più esatta di quali furono l'azione, i mezzi, la condizione di spirito dell'Inquisizione, mettendo la stessa sotto inquisizione, nello spirito del più esigente libero esame.
Il professor Charles Moeller, dell'Università di Lovanio, in un articolo intitolato: "Les bùchers et les auto-da-fés de l'Inquisition depuis le Moyen Age", scrive: "l'Inquisizione ha cominciato ad infierire soprattutto alla fine del XV secolo, prima in Spagna, e in seguito nella maggior parte dei paesi successivamente riuniti sotto la corona di Spagna; gli altri Stati, sia cattolici che protestanti, non hanno mancato di adeguarsi nel far rivivere una istituzione che rispondeva così bene alle passioni religiose del tempo. Sarebbe dunque più giusto dire che l'Inquisizione è soprattutto un fenomeno dei tempi moderni" (il corsivo è mio).
Uno storico valido come Charles Langlois (L'Inquisition d'aprés des travaux récents, Paris, 1902, p. 84) può scrivere: "l'inquisizione non ha turbato profondamente la vita normale della società del Medio Evo, se non in qualche provincia dell'Italia del Nord e della Francia del Sud, per qualche anno del XIII secolo. Altrove, e in seguito, non sembra che la sua attività, piuttosto attenuata, abbia avuto dei risultati socialmente considerevoli". B. Hamilton (L'Inquisizione Medioevale, 1981) dice (pag. 41) che l'azione di questo tribunale era "flimsy", vale a dire "inconsistente" (e quale azione dei tribunali del passato non lo fu, a paragone di quella di certi tribunali del XX secolo?).
Citiamo un testimone insospettabile, il cui lavoro abbiamo largamente utilizzato per questo studio: H. C. Lea.
Charles Lea è autore di una monumentale storia dell'Inquisizione (1886) in tre volumi, di una incontestabile ricchezza documentaria. Si tratta di un autore inattaccabile, come diciamo oggi. Pubblicista protestante impegnato, acceso antipapista, la sua opera è una lunga arringa in favore di quelli che, nello spirito "umanitario" dell'epoca e della società cui appartiene, egli considera come dei martiri del libero-pensiero, vittime della Sanguinosa repressione organizzata da Roma.
Ma molto obiettivamente egli riconosce (t.I, p. 618) che "tra i metodi di repressione ... il rogo fu il meno utilizzato" e sottolinea che, se la scarsità, o addirittura l'assenza di documentazione, non rendesse impossibile la produzione di statistiche almeno un po' attendibili, "si sarebbe Sorpresi di incontrare così poche esecuzioni sul rogo". Altrove (t. I, p. 120) ancora, egli scrive, e ciò va a suo onore di storico "impegnato":
"Qualunque sia l'orrore che ci ispirino i mezzi impiegati per combatterli, qualunque sia la pietà che noi sentiamo per coloro che morirono vittime delle loro convinzioni, riconosciamo senza esitare che in queste circostanze (parla dei Catari) la causa dell'ortodossia non era altro che la causa della civiltà e del progresso (il corsivo è mio). Se il catarismo fosse diventato dominante o anche solo paritario rispetto al cattolicesimo, non c'è dubbio che la sua influenza sarebbe stata disastrosa". Infatti, Lea non manca di sottolineare gli aspetti antisociali delle dottrine catare.
Ultima modifica di GrisAdmi il dom gen 06, 2008 9:29 pm, modificato 1 volta in totale.
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Messaggioda GrisAdmi » sab gen 05, 2008 4:08 pm

Capitolo primo

NASCITA DELL'INQUISIZIONE


La dottrina della Chiesa

Una grande norma domina l'azione degli Inquisitori: la Chiesa non vuole, in principio e per principio, la morte dell'eretico. Le punizioni hanno un carattere puramente penitenziale; esse sono "medicinali": esse aiutano a "guarire". Si tratta di un principio caro a San Benedetto (Regula; XXIII, 17): il fratello "ribelle" non può che essere un malato. La comunità deve pregare perché Dio gli ridia la salute (salutem circa infirmum fratrem).
Solo la pena di morte ha, agli occhi dell'Inquisizione, un carattere propriamente "vendicativo".
La Chiesa cerca dunque, sempre e soprattutto, di ricondurre gli indiziati nella via della salvezza, di riportare il colpevole sul dritto cammino, di condurlo a resipiscenza, questa bella parola, che originariamente, significava "ritorno alla ragione" e dunque al "pentimento". Per questo le sentenze degli Inquisitori sono sempre infarcite di prescrizioni come: partecipare alla Messa, ascoltare le omelie, confessarsi (a Natale, Pasqua, e Pentecoste), comunicarsi negli stessi giorni, astenersi da qualunque lavoro servile la domenica e i giorni di festa, evitare l'usura e ogni sorta di rapina, non praticare sortilegi, enumerazione che getta una luce curiosa sulla mentalità e la condotta dei Cristiani nel Medioevo.
Nel 1246, i vescovi riuniti a Bézier, sotto la presidenza dell'arcivescovo di Narbonne, elaborarono trentasette articoli relativi alla procedura inquisitoriale.
Essi trattano tanto del tempo di grazia, obbligatorio, quanto dei problemi sollevati dalla situazione giuridica degli eredi di un "criminale" morto prima di essersi riconciliato con la Chiesa (sono condannati a pagare l'ammenda affinché il "crimine non resti impunito). L'articolo XVII consiglia di ritardare ("damnare tardetis") il pronunciamento della sentenza, al fine di lasciare agli imputati il tempo di riflettere. Il Vescovo e altri sono incaricati di entrare "frequentemente" in contatto con essi, "ad conversionem monentes".
Altro esempio di (relativa) mansuetudine: "nel febbraio 1286, Onorio IV, in considerazione della fedeltà testimoniata alla Chiesa Romana e a lui stesso, prima della sua elevazione al pontificato, dal popolo di Toscana, liberò gli abitanti (individualmente e collettivamente) dalle pene in cui erano incorsi per eresia, così come da tutti i divieti decretati dai precedenti pontefici e da Federico II, sia che si trattasse di pene comminate per errori degli stessi cittadini o dei loro antenati". I figli cattolici di genitori eretici erano ipso facto riammessi nel possesso dei loro privilegi e non dovevano più temere per la loro eredità. Per ciò che concerneva gli eretici ancora viventi, essi erano tenuti a comparire di fronte all'Inquisitore entro un lasso di tempo fissato dal magistrato. A coloro che si trovassero all'estero era concessa una proroga di cinque mesi. Davanti al tribunale dell'Inquisizione, questi imputati avrebbero dovuto abiurare l'eresia e si sarebbero visti infliggere penitenze che avrebbero dovuto non avere nulla di pubblico e non comportare né umiliazione, né perdita di diritti né di beni.
I recidivi, però, sarebbero stati trattati secondo tutta la rigidità della legge (cfr. H. C. Lea, op. cit. Il, 290).
Tutto ciò nel rispetto di un formalismo giuridico molto stretto. Certo, non si trattava di intavolare una "disputatio" sapiente sulle dottrine e le pratiche degli eretici: "non est disputandum cum hereticis", soprattutto, dice il testo "in officio inquisitionis". Conveniva, piuttosto, esporre gli articoli della fede cattolica "sine strepitu et litigio" (allusione agli avvocati della difesa), senza rumore né disputa. La sola esposizione (a cura del la Chiesa), degli articoli della fede cattolica, poteva bastare a convincere un imputato? Sì, risponde senza esitare, il De officio inquisitionis (ca. 1314), perché "nessun cristiano adulto che vive con dei cristiani, può ignorare ciò che insegna solennemente la Chiesa, né i dieci comandamenti", perché questi sono per "diritto naturale" dell’uomo in quanto "animale razionale".
Affermare, dunque, che infrangere l'uno o l'altro di questi comandamenti non è peccare perché si ignorava che fosse un comandamento, non è una scusa. Basta domandare all'imputato se crede che tale è la verità (e che cosa crede). Se egli rifiuta di riconoscerla, è colpevole. In fondo, la Chiesa vuole punire l'ostinazione orgogliosa nell'errore, più ancora che l'errore stesso, il quale è umano. Qui, ancora, il pensiero di San Benedetto è presente.


Perché l'inquisizione?

Per quale ragione la Chiesa è stata portata a creare gli strumenti di un controllo delle anime e delle coscienze?
Per molti secoli essa non se ne era per nulla preoccupata. San Bernardo scrive ancora, in pieno XII secolo: "Verbis (o "Argumentis") non armis capiantur", rifiutando così l'uso della forza per riportare i fedeli nel retto cammino. L'azione dei Vescovi e dei Principi bastava sul piano locale; le condanne dei sinodi e dei concili riconduceva all'ovile, il più delle volte, le pecore smarrite. L'insegnamento dei Maestri in teologia rischiarava la via dell'ortodossia. Del resto, la Chiesa fu lenta a mettersi in azione: gli Albigesi sono segnalati nel 1149; non vengono scomunicati che nel 1208. La crociata diretta da Simon de Montfort, sviluppa i suoi orrori dal 1204 al 1229: si tratta soprattutto di un saccheggio legittimato, una rapina legale che si abbatte sulle terre ("terram exponere occupantitus"). Ma la carneficina di Montsegur non avverrà che nel marzo del 1244. Hitler e Stalin sono stati ben più tempestivi.
Queste forze riuscirono il più delle volte a fermare i fermenti popolari, passionali e micidiali, che nell'XI e XII secolo ebbero un peso notevole nella caccia ai sospetti.
Le cose cambiarono quando si diffuse la dottrina dei Catari. Fuori dal proprio tempo e spazio, è impossibile spiegare cos'era il Catarismo. Basti dire che per come era insegnato, praticato e organizzato, poteva apparire come un insegnamento che minacciava nello stesso tempo la Chiesa e la società (e io non son lontano dal credere che si trattasse di una minaccia reale).
Questa dottrina di derivazione manichea e caratterizzata da elementi gnostici, fece la sua apparizione in Francia alla fine dell'XI secolo. Nel XII secolo i suoi fedeli sono conosciuti, nel sud-est della Francia, con il nome di "Valdesi", dal nome del loro fondatore, Valdès. Essa propone un evangelismo rigoroso, antisacerdotale e antigerarchico, un dualismo che vede il male incarnarsi nella materia (il corpo è una prigione) e nell'ordine temporale. Il cataro, il "perfetto", si rifiuta di procreare; il matrimonio, per lui, è un concubinato legale (il latino dice brutalmente: "matrimonium est meretricium"); una donna incinta ha "il diavolo in corpo" etc. Il cataro rifiuta di osservare le esigenze della vita associata o di prestare giuramento. Le conseguenze del Peccato Originale possono essere cancellate grazie al battesimo dello Spirito, instaurato dal Cristo.
I Catari potevano dunque apparire come una seria minaccia.
A dire il vero, per più di un secolo, erano stati lasciati in pace. Non si sarebbe potuto continuare nello stesso atteggiamento? Oggi viviamo in una società secolarizzata al 100%, pluralista, che non ha "senso" (cioè "direzione" e "significato") in cui coesistono credenti e non credenti, in cui anche le sette più perniciose sono tollerate, come lo sono le ideologie distruttrici del tessuto sociale e, talvolta, la stessa droga (in Svizzera, nei Paesi Bassi); una società in cui la fede dei credenti è lontana dal fervore di altre epoche, in cui la Chiesa non ha più il compito di guidare i Principi. Ci è dunque difficile capire le reazioni di orrore e di paura, se non di terrore, che si impossessarono delle persone di fronte alle modalità della "pravitas" eretica, o davanti alle semplici deviazioni dottrinali, in materia di comportamento o di condotta di certi fedeli. Se non teniamo conto di questo commettiamo un imperdonabile anacronismo. Possiamo evitarlo rituffandoci, col pensiero, nell'uno o l'altro dei momenti di fermento della recente vita sociale; la guerra, per esempio, o, meglio ancora, la Liberazione e gli anni che seguirono; o ancora, le scene che seguirono la caduta del muro di Berlino. Era pericoloso, all'epoca di Stalingrado, per esempio, mettere in dubbio la bontà profonda, la saggezza, la democraticità, il rispetto della parola data di Tito o di Stalin. Russi e Americani procedevano con lo stesso passo, gli uni verso una società sempre più liberale, gli altri verso una società sempre più socialista.
Tutti credevano nella ferma volontà del Piccolo Padre dei Popoli di lasciare organizzare libere elezioni in Polonia e in Cecoslovacchia. Si trattava di un dogma, e chi esitava ad adottarlo non poteva che essere un "traditore", un collaborazionista che dubitava del destino della patria e doveva essere trattato come tale. Questo accadde all'epoca della Liberazione, come era accaduto nel 1793, nei momenti del Grande Terrore Non senza eccessi, come sempre accade quando un'onda di passione (miscela esplosiva di odio e di paura) si impadronisce delle folle, e questo nonostante si tratti di una società che si dice liberale, tollerante e democratica. Si possono così comprendere meglio le reazioni popolari ed ecclesiali di fronte a ciò che l'immensa maggioranza dei credenti riteneva essere una minaccia certa di avvelenamento delle anime. Quello che si è soliti chiamare "il popolo", si accalcava ai piedi del rogo. Dobbiamo ammettere che le cose non avrebbero potuto andare diversamente in una società che, contrariamente alla nostra, si era edificata sui fondamenti religiosi, su una visione religiosa dell'Uomo e della Città, che ispirava, dettava, controllava tutte le azioni della vita quotidiana. Pensiamo alla Polonia nel periodo in cui lottava, per la sua sopravvivenza spirituale, contro la pesante influenza comunista: non c'era spazio, allora, né poteva essercene, per il minimo allontanamento o deviazione dal sentimento di comunione totale (nettamente definito e orientato), che animava l'intero popolo polacco.
I Catari apparivano a tutti come una potente minaccia che pesava, lo ripeto, sulla Società e sulla Chiesa. Per questo i vescovi li combattevano, provocando dispute pubbliche con essi. Osserviamo, in primo luogo, che essi non pensavano ad utilizzare la forza sperando, conformemente alle illusioni di un'epoca che credeva alla razionalità dei comportamenti umani, che l'efficacia di una leale e chiara discussione potesse ricondurre i ciechi alla luce della Ragione e della Verità. In secondo luogo, notiamo che i vescovi non esitavano a provocare incontri pubblici con uomini che li attaccavano e li criticavano duramente, spesso lungo l'arco di un'intera giornata e "coram populo". Immaginiamo un simile dibattito tra un rabbino e un S.S., o, negli anni '30, tra un fedele di Stalin e un trotskista.
Il problema che si pose presto derivava dal fatto che, in questo genere di tenzone, i vescovi, senza dubbio buoni pastori ma scadenti teologi, uscivano il più delle volte battuti. A tal punto che il numero dei Catari cresceva continuamente (ci sono, è ovvio, altri fattori che possono spiegare il successo del catarismo; ma il loro studio non fa parte dell'oggetto centrale della nostra riflessione). Un buon numero di vescovi esitò ad applicare la repressione, che escludeva peraltro la pena di morte (il Papa Alessandro II (1061-1073) proibì ogni sorta di effusione di sangue, seguito da Alessandro III al concilio lateranense nel 1179). Roma pensò allora di utilizzare i servigi di un ordine di recente fondazione (1216): quello dei Frati Predicatori, o Domenicani. Fu Papa Gregorio IX (1170-1241) che prese questa decisione nel 1233, decisione che d'altronde non privava i vescovi del diritto-dovere di perseguire gli eretici nei limiti delle loro diocesi. Di fatto si decise che vescovi e inquisitori lavorassero di comune accordo, il che, siccome gli uomini sono come sono, anche se sono di Chiesa (le male lingue direbbero, forse: proprio perché sono di Chiesa), non funzionò senza che, di tempo in tempo, nascessero tensioni e difficoltà. Più tardi (nel 1238) i Francescani ricevettero l'incarico di partecipare a quest'opera di epurazione. L'Ordine fondato da San Domenico fu il primo ad essere composto da uomini istruiti, tutti dottori in teologia o in diritto canonico provenienti dalle Università di Parigi o Bologna. Doveva essere evidente a tutti che il compito di questa nuova istituzione era di riconvertire alla verità gli spiriti smarriti, attraverso una discussione sapiente, ordinata e sintetica. Punizioni più gravi di quanto non fossero quelle spirituali, erano destinate solo a punire, secondo le regole, i peccatori impenitenti, quelli che rifiutavano qualunque concessione o pentimento di sorta.
La prigione era destinata non tanto a punire il colpevole, quanto a isolare il male, ad impedire che si diffondesse. Quanto a coloro che si ostinavano a difendere tesi condannate dalla Chiesa, talvolta da molti secoli, essi dovevano aspettarsi il peggio e bisogna dire che alcuni lo hanno affrontato con coraggio.


Perché nel XII - XIII secolo?

La Costituzione pontificia del 1220 denuncia 6 gruppi di eretici; quella del 1228 una ventina, tra i quali alcuni sono ancora oggi familiari: i Catari, i Valdesi, e anche i patarini; ma di un buon numero noi sappiamo ormai poco o nulla. Citiamo: i Circoncisi, i Piancanlos, i Passaginos, i Luciteriani, i Lollardi, i Fraticelli, i Begards, i Bizzocchi tutti movimenti di ribellione contro Roma, per sempre scomparsi nei meandri della storia. Ci si può chiedere perché il XII e XIII secolo, i più bei gioielli del Medio Evo, abbiano visto sbocciare tale fioritura di dissidenze. Ci si può anche domandare perché la Chiesa abbia sentito la necessità di combatterle con tanto ardore. A questa seconda domanda è facile rispondere che, per Roma, era impensabile permettere che si sviluppassero in pace tali "particolarismi" (uso con intenzione il termine attuale) che minacciavano tanto la sua unità che la coerenza sociale. Gli eretici si indirizzavano contro la Chiesa (e, assai spesso, contro il principio stesso delle istituzioni) e contro la società, per rispondere, dicevano, alle esigenze delle loro coscienze e per sete di libertà; per la volontà di vivere in pace i loro propri valori. Erano però pronti, una volta padroni della situazione, a sviluppare il peggiore dei dispotismi. In numerose province, in cui erano abbastanza numerosi e organizzati per controllare la vita delle società, non lasciavano alcuna chance di sopravvivenza tranquilla ai fedeli dell'"altra chiesa". Calvino, Lutero, Cromwell, non hanno agito diversamente. E Lenin come Robespierre, hanno fatto lo stesso. Nella prefazione ai suo opuscolo "L'Imperialismo ultima tappa del capitalismo", Lenin scrive: "E' duro rileggere, adesso che sono arrivati i giorni della libertà (26 aprile 1917) queste pagine mutilate dalla paura della censura imperiale, chiuse, stritolate come in una morsa dì ferro". Ognuno conosce ciò che è diventata la libertà di stampa sotto la sferza leniniana, e questo dai primi giorni del governo di Wladimir Oulianov.
Tutti quei movimenti avevano in comune il fatto di essere animati dalla "vanitas", dalla presunzione di saperne di più della stessa Chiesa, di capire meglio dei teologi il Vangelo, di comportarsi più cristianamente del clero, o di seguire le orme delle comunità di Gerusalemme. In realtà la dottrina degli eretici, come quelle delle sette, oggigiorno è, nell'insieme, informe e fiacca, di un'incredibile povertà dottrinale (fatto che spiega del resto, in certa misura, i loro successi).
Il Decreto pubblicato da Gregorio IX, nel 1231, ha perfettamente percepito che, per quanto fossero in apparenza diversi, questi movimenti avevano delle radici comuni: "Esse (le eresie) hanno aspetti differenti – egli scrive - ma sono legate le une alle altre per la coda ("sed caudas ad invicem collegatas"). Coda di "volpe", bisogna dire, perché "l'astuzia" è una delle loro migliori difesa, insieme con la clandestinità organizzata (specialmente nel caso dei Catari). Quali fatti possono spiegare una presenza così molteplice e attiva? Senza dubbio la nascita dei Comuni è uno di questi. Il "borghese" si sente libero, egli ha preso l'abitudine di prendere iniziative, decisioni, responsabilità. Egli crede alla sua autonomia economica e politica: come potrebbe non essere tentato di estenderla al campo religioso? Egli diventerà ben presto "anticlericale" (del resto, in un modo o nell'altro, il Medio Evo lo è sempre stato). Su questo punto, le sette non fecero che sistematizzare e organizzare un sentimento assai diffuso e ovunque presente. La Chiesa, principalmente nelle persone dei vescovi, non si dimostrò sempre accogliente nei confronti delle novità che la comparsa dei Comuni, terre di libertà, suscitavano per forza di cose (cfr. Volpe, Movimenti religiosi, op. cit., pp. 101-107).
Essa, d'altra parte, aveva molto sperato nelle Università, di cui aveva sancito la nascita; essa aveva contato su queste per difendere e rafforzare il proprio potere. Le Università, da Abelardo ad Occam, da Wycliff a Jean Huss, furono ben presto centri di libera riflessione, assai spesso ai limiti dell'ortodossia.
Terza causa di eresia: la nuova società di "consumismo", quella che, insieme a molti altri, lo stesso S. Francesco d'Assisi denuncerà. Essa non produsse solo benessere. Gli artigiani soffrono, mormorano, rimettono in questione l'ordine sociale e quello ecclesiastico. La ricchezza dei parvenus scandalizza (con il suo abituale vigore, Dante tuona contro di essa, per bocca del suo antenato Cacciaguida). Non che si debba vedere nelle eresie, così come alcuni hanno creduto di dover fare, assai ingenuamente, i primi segni di una embrionale lotta di classe. La composizione sociale della comunità catara (a Brescia, per esempio, nel 1220-1225, o in Lombardia), come quella degli Anabattisti di Munster, agli inizi del XVI secolo, prova che questo è assurdo. Il comportamento dei preti, dei vescovi, dei religiosi, porgeva il fianco alla critica, e questo è il meno che si possa dire. Tutto il Medio Evo rimbomba di canzonature spesso sferzanti che il popolo indirizzava contro i chierici. E non c'è pentola dell'Inferno che non contenga qualche monaco o qualche vescovo, più spesso entrambi. Situazioni simili erano sufficienti a raggruppare elementi di origine sociale assai diversa.
Il fallimento delle crociate che la Chiesa aveva patrocinato, l'immensa delusione popolare che ne seguì, contribuì a lasciare le folle disorientate, inquiete, in stato di abbandono. Queste sono le condizioni propizie allo sviluppo di movimenti di passione e di speranza millenarista. Cosa che non mancò di verificarsi. Il pontificato stesso, con in testa l'ammirevole Innocenzo III, sente che il mondo è in un'epoca desolata: "La natura umana è, di giorno in giorno, più corrotta. Il mondo e i nostri corpi invecchiano", egli scrisse. "La miseria è il destino dell'uomo". Visione del mondo e dell'avvenire che può rinvigorire la fede di un uomo forte, ma gli spiriti semplici dovevano cercare qualche rifugio immediato, nel senso originario del termine: senza la mediazione di una Chiesa, delle sue strutture e delle sue gerarchie, in un Vangelo liberato dalla riflessione teologica e dal sapere dei "saggi" e degli "intelligenti" (Mat. 11,12), il che doveva portarli immancabilmente verso gli atteggiamenti più irrealistici e le speranze più folli. Come canta magnificamente il capitolo 21 dell'Apocalisse: "Dio sarà con gli uomini. Egli dimorerà con loro. Essi saranno il suo popolo... Non ci sarà più la morte ... Non ci sarà più né lutto, né grida, né sofferenza, perché il vecchio mondo sarà scomparso ...("Facciamo tabula rasa del passato, canta "l'Internazionale"). Gli uomini semplici di allora (e una parte del clero con loro) non potevano sfuggire alla tentazione di un nuovo gnosticismo, nettamente anti-cristiano (nel caso dei Catari) o di un tiepido teismo (in quest'epoca, evidentemente, non era questione di ateismo o anche solo di agnosticismo). A dire il vero, il nostro Secolo di Lumi, con le sue sette, il suo Bahaismo e il suo New Age, risponde in altro modo alle attuali sfide della storia? Certo il grande Terrore dell'Anno Mille è una leggenda, e la Chiesa-istituzione del Medio Evo non ha mai creduto alla venuta vicina o imminente dell'Anticristo, più che alle oscure profezie dell'Apocalisse. Ma, osserva lo storico, nei cuori delle masse (lo stesso S. Norbert, il fondatore dei Premostratensi, è persuaso che la sua generazione vedrà sorgere l'Anticristo), nel corso dei secoli, c'è una corrente diffusa, latente o esplicita, di speranze millenariste che spiega il successo delle eresie, messianiche o no. Come il socialismo, all'alba del XIX secolo, "utopico" o "scientifico", ha risposto alle attese rivoluzionarie dei proletari in stato di disperazione, in una società sconvolta dalla "rivoluzione industriale" e dalla fine dell'antico regime. Mutatis mutandis, le folle cristiane si sono trovate davanti una situazione con una Chiesa anch'essa in crisi (soprattutto nel XIV e XV secolo). Da questo profondo malessere, da questo "male di società", sorgerà una corrente tumultuosa e popolare che andrà ad alimentare potentemente il pensiero del visionario calabrese Gioacchino da Fiore (ca. 1130-1202) e che, ben presto, rivendicherà il diritto ad una libera morale meno moralista, più che quello ad una fede libera. Il misticismo popolare prese ben presto le forme di una pietà alterata in modo singolare - pensiamo ai Pastorelli, o ai Flagelianti - o di un panteismo insincero.
Queste tendenze (e queste "devianze") erano così forti, così naturali, così spontanee, che lo stesso francescanesimo - che era stato, in un certo modo, la più forte risposta ortodossa alla fede e la più tenera verso le aspettative delle masse - conobbe dei ben singolari "dérapages" (pensiamo ai "Fraticelli"). Gli altri movimenti basati sulla povertà, anch'essi ascetici, popolari, evangelici, e anticlericali, che sognavano un "cristianesimo sedicente, puro e primitivo" (M. D. Knowles) - Bogards o Bégards, Bonshommes, Poveri di Lione, Umiliati, Poveri Cattolici - non ebbero infine altra scelta che scomparire o integrarsi in uno degli Ordini esistenti. Bisogna dirlo: Roma, ben presto assimilata alla Babilonia dell'Apocalisse, "diventa dimora di demoni, rifugio di tutti gli spiriti impuri" (Apo., 18, 2); "la Chiesa-istituzione risponderà in modo imperfetto a diverse aspettative" (P. Alphandéry, Le idee morali, op. cit., pp 190-195).
Innocenzo III, papa dal 1198 al 1216, era giurista. Proveniva dall'Università di Bologna - un'Università tutta inebriata dalla riscoperta del diritto romano, e che aveva appena emanato il Decretum Gratiani che fissava il diritto pontificio, sino ad allora incerto.
I mezzi d'azione dell'Istituzione furono rafforzati e legalizzati, divenendo più giuridici ed anche giudiziari, che apostolici. Nello stesso tempo, su un altro piano, il fatto di aver imposto (precisamente nel XIII secolo) la confessione annuale obbligatoria, aprì la via, senza dubbio, ad un certo affinamento della coscienza cristiana, ma anche agli scrupoli, alle truffe, alle ossessioni, e pose mille problemi a confessori dibattuti (Pascal ne fu la prova), come lo erano gli Inquisitori, fra una morale di comprensione e le esigenze di un codice più formale che vissuto intimamente. Ci si incamminava in questo modo verso il giansenismo, primo passo verso la scristianizzazione (cfr. Du Jansénisme à la laicité. Le conversazioni di Auxerre, sotto la responsabilità di Léo Hamon, Atucerre, 1987).
La riforma morale tanto attesa, il grande rinnovamento della fede tanto sperato, si infranse su di una codificazione delle prescrizioni religiose sempre più rigide e minuziose. Il Messaggio paolino di libertà cristiana evolse verso una religione di osservanze formali e di pratiche esteriori.
Un cronista dell'epoca ha ben capito i danni prodotti da una tale evoluzione. Egli scrive: "il popolo si astiene più rigorosamente che in altri tempi (il corsivo è mio) dal burro il venerdì e dalla carne il sabato, ... (ma) si è certamente sulla cattiva strada, quando si digiuna e si deruba il prossimo". E conclude: "sarebbe meglio mangiare la carne e commettere meno peccati". Come stupirsi, in tale situazione, che le masse si siano rivolte verso forme di religiosità che potessero soddisfarle le più intimamente?
La fioritura degli Ordini Mendicanti (8 tra il 1198 e il 1256, tra i quali quello dei Francescani non fu il meno importante quanto al suo impatto sulle folle ansiose di vivere un ritorno al Vangelo), la comparsa di nuove forme di vita religiosa - quella, per esempio, degli Alexiens, la prima congregazione di laici (1305) - il successo dei beghinaggi, delle fraternità, delle corporazioni (tutti movimenti e fermenti ricostituiti o di nuova formazione) attestavano, certamente, il vigore e la vitalità del sentimento religioso. Come facevano, da parte loro, nella stessa epoca, le riforme benedettine, 6 in tutto, tra cui quelle dei Silvestrini, dei Celestini e degli Olivetani.
Ma questo rinnovamento della Chiesa, per quanto reale e potente fosse, non fu sufficiente a placare le inquietudini (o terrori) delle folle cristiane, né a rispondere alla loro aspettativa, né a presentare loro un "progetto di vita" accettabile. Esso evidenziava piuttosto quanto fosse profonda la crisi in cui si dibatteva la Chiesa-istituzione e che, per certi, sembrava insanabile.
Visione pessimistica proiettata sul presente, investimento in un grande sogno millenarista di cambiamento radicale e rapido: queste sono le classiche condizioni propizie al sorgere delle utopie e "il Dio con gli uomini" dell'Apocalisse è una di queste. In un modo o nell'altro, le eresie si inseriscono in questa profonda corrente della storia medioevale. E' questo che può spiegare la loro frequenza, il loro incessante risorgere, gli innumerevoli sacrifici che hanno consentito. D'altra parte, la lotta contro le eresie condurrà la Chiesa, alla luce delle sue esperienze, a definire in modo sempre più netto i lineamenti duri della ortodossia, a formularli meglio, a precisarli - e con quale genio! ma, al tempo stesso, moltiplicherà le occasioni - e gli obblighi - di intervenire per difenderla. Essa fu anche condotta a creare lo strumento necessario per giungere a buon fine. Non senza esitazioni, l'abbiamo visto, e si potrebbe arrivare a dire tardivamente, se si tiene conto di quello che (nel corso di più di 10 secoli) essa aveva passato, quando movimenti di eretici, di "dissidenti", scuotevano da tempo la cristianità, si potrebbe dire da sempre (cfr. le Epistole di S. Paolo). Ma, così come capita spesso nelle faccende umane, questo strumento di lotta contro l'eresia contribuì a rivelarla più efficacemente, dunque a moltiplicare il numero dei sospetti e, per forza di cose, per quanto il giudice fosse di natura poco sospettosa o incline al legalismo, a moltiplicare quello dei colpevoli. Alcuni non videro altro che l'azione (repressiva) di purificazione, e persero di vista che la loro missione era, prima di tutto, solo quella di salvare le anime.


La codificazione della procedura inquisitoriale

L'azione dell'Inquisizione è stata rapidamente regolata e dominata da un sistema di diritto che, nel corso dei secoli, andrà precisandosi. Essa si inscrive, propriamente, in un regime di diritto che i giudici dovevano rispettare nel modo più rigoroso e che dava all'imputato tutte le garanzie desiderabili, soprattutto in materia di diritto della difesa.
I manuali dell'Inquisitore non sono nati di colpo: sono il frutto dell'esperienza e di una presa di coscienza sempre più netta dei doveri che si imponevano ai giudici, ed anche delle difficoltà sempre crescenti nelle quali essi si imbattevano.
L'Inquisizione monastica, "agendo pressoché al di fuori di ogni forma legale (...) con uno zelo disordinato", non aveva mancato di provocare alcuni "eccessi", contro i quali reagirono non solo gli imputati, ma anche la giurisdizione tradizionale, cioè i vescovi. Per questo si elaborò, a poco a poco, una legislazione di stupefacente precisione, che fissava i diritti e i doveri dei giudici e prevedeva una giurisprudenza atta a darle ordine e a sfumarne l'applicazione, così come si elaborò una procedura destinata a limitare l'arbitrio dei potentissimi Inquisitori. La materia era nuova, strane e sconcertanti le teorie elaborate dagli eretici, numerosissimi i tratti che le differenziavano.
I religiosi, Francescani o Domenicani, così pure i vescovi, non erano preparati ad affrontare questi problemi. E meno ancora a risolverli in uno spirito di carità e indulgenza cristiana. I manuali che furono redatti all'epoca, erano destinati a guidarli nel difficile compito che era loro stato affidato. Per questo, in essi fu inserita ben presto una descrizione precisa delle eresie, la cui dottrina differiva dall'una all'altra, suggerendo che cosa convenisse chiedere nell'Interrogatorio per meglio poterle discernere. Descrizione la più obiettiva possibile, tanto che non è raro che la sola fonte di informazioni, che possiede lo storico d'oggi, sono proprio gli atti dei processi. Occorreva permettere, infatti, agli Inquisitori, di orientarsi nella foresta delle eresie e di rintracciare con più facilità i colpevoli.
Lo scopo era quello di presentare una specie di "direttorio" per i giudici, perché l'abbondanza dei testi, la "quam pluribus" diversità delle loro origini ed epoche, avevano reso la dottrina, che doveva servire da guida all'Inquisitore, un po' confusa ("diffuso et ideo quasi confusa").
Per questo fu affidato a dei giuristi l'incarico di compilare questo genere di manuali. E' il caso, nel 1330, del "Tractatits super materia hereticorum" di Zanchino Ugolini, avvocato dell'inquisitore francese Donat de Sainte-Agathe. Zanchino - nota Padre Antoine Dondaine, o. p., che ha scritto, su questo argomento, un articolo fondamentale - è imbevuto dello spirito delle grandi scuole di Bologna; "la sua preoccupazione costante è di confermare, attraverso l'autorità dei maestri, le spiegazioni che dà al suo lettore". Così, la pena di morte è giustificata in nome del diritto comune come lo saranno le torture, la prigione, la confisca dei beni, "tutte cose già applicate da molto tempo dagli Inquisitori, ma che non avevano ancora avuto apertamente l'avallo dei giuristi di professione". Questi ultimi si riversarono in questa nuova carriera. Sapevano che gli Inquisitori erano "ignari" in materia di diritto, che potevano lasciarsi imbrogliare dagli eretici, più avvezzi di loro a questo genere di dialettica (pensiamo alla virtuosità verbale di certi trotskisti degli anni '30, o dei "settari" di oggi), o condannare degli innocenti. "Per questo - essi argomentavano - se vogliono rispettare le esigenze della giustizia e della libertà, gli Inquisitori devono rivolgersi a degli specialisti "peritorum in jure". Questo non fu sempre un beneficio per l'inquisito. Nella Nouvelle Historie de l'Eglise (t. Il, 446), Padre M. D. Knowles, OSB, scrive: "Tutte le protezioni di cui l'accusato aveva goduto nei primi tempi - l'avvocato, l'inammissibilità delle prove ottenute con la violenza, la protezione contro la tortura e contro la reiterazione della stessa - furono progressivamente diminuite dalla legislazione, (il corsivo è mio) dalla casistica e dal ricorso diretto alle scappatoie". Aggiunge: "processo apparentemente inevitabile" quando si pretende di poter invocare la ragion di Stato, l'ideologia o la religione, contro la verità o la giustizia, così come il nostro secolo ha brillantemente dimostrato. La procedura di inchiesta diviene così sempre più precisa e minuziosa. L'Inquisizione fu sottoposta a vincoli procedurali fino all'ossessione (in realtà, tutto il Medioevo è preoccupato di tali garanzie). Ormai l'imputato verrà esaminato, giudicato ed eventualmente condannato secondo le regole di un perfetto regime di diritto. Il minimo che si può dire è che simile preoccupazione, tanto per quanto riguarda gli Inquisitori - che tra l'altro, in coscienza, si ritenevano obbligati ad agire quali buoni pastori più ancora che quali giudici - che quanto riguarda gli imputati, è ben lontana dall'immagine che ci si fa comunemente dei processi condotti dall'inquisizione, e più lontana ancora (se possibile) dalle procedure arbitrarie e sbrigative alle quali i processi di Mosca (e l'assenza di processi del regime nazista) ci hanno abituato.
Gli inquisitori utilizzarono, dunque, l'uno o l'altro manuale - Directorium Inquisitorum - redatto da qualche confratello esperto: quello di Nicolas Eymeric, nato in Catalogna nel 1320, o quello di Bernardo Gui (1261-1331), nato a Limousin. Come tutte le codificazioni, anche quelle inquisitoriali accumularono i distinguo.
Tengono conto del clima dell'epoca, dell'evoluzione della mentalità, dell'ostilità che l'Inquisizione incontra frequentemente, tanto da parte dell'Ordinario che da parte delle classi popolari, dell'abilità sempre crescente, nel difendersi, di cui danno testimonianza i "settari".
Infine tengono conto del momento storico: basta, per convincersene, comparare il tono delle correzioni del XVI sec.
Tenuto conto di tutti i fattori, e malgrado i numerosi eccessi e deviazioni da cui è segnata l'istituzione dell'Inquisizione, si tratta - per le garanzie che offriva, malgrado tutto, agli accusati e per volontà molto netta di clemenza - di una forma di progresso morale molto superiore, in ogni caso, alla giustizia civile dell'epoca, (infinitamente più sbrigativa) e, soprattutto, alla giustizia popolare.
Ultima modifica di GrisAdmi il dom gen 06, 2008 9:40 pm, modificato 1 volta in totale.
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Messaggioda GrisAdmi » sab gen 05, 2008 4:13 pm

Capitolo secondo

COME FUNZIONAVA L'INQUISIZIONE


La parola stessa Inquisizione, nell'alto Medio Evo, significava semplicemente "inchiesta". Essa stabiliva, nelle questioni criminali, una procedura che affidava alle autorità ecclesiastiche il compito di procedere ad un'inchiesta, che comprendeva un contraddittorio con l'imputato. I giudici erano designati dal provinciale, dietro la seguente domanda del Papa: "si tratta di un uomo che sa esercitare con moderazione i suoi poteri?"; questi erano infatti assoluti. Il vescovo del luogo non aveva diritto di immischiarsi nei processi. Il che non accadeva sempre senza contestazioni, essendo in genere i vescovi molto gelosi della propria autorità. Talvolta essi desideravano mettere le loro "pecorelle" al riparo del rigore dell'Inquisizione e intralciavano l'inchiesta, quando non facevano opera di opposizione pura e semplice.
Si finì per concludere un accordo, nel 1304, che concedeva al vescovo gli stessi poteri dell'Inquisitore, precisando tuttavia che le pene che precedevano la reclusione o l'uso della tortura dovevano essere decise di comune accordo. Lo stesso valeva per la sorveglianza delle prigioni, che spettava all'uno e all'altro e che esercitavano attraverso l'opera di un corpo di guardie. Tutto ciò non facilitava sempre il compito degli inquisitori; taluni protestarono, ma invano: dovettero assoggettarsi.
La presenza obbligatoria dei vescovi tra i giudici e l'obbligo che l'inquisitore aveva di non pronunciare la sua sentenza senza il consenso del vescovo, metteva spesso quest'ultimo in una posizione di preminenza. Ma il potere temporale influiva sull'episcopato più facilmente che sugli Inquisitori. Nelle mani di un uomo deciso, come era per esempio Philippe le Bel (1268-1314), l'uomo di Anagni, l'Inquisizione divenne un terribile strumento d'azione politica, come dimostrò il processo dei Templari (1307-1314), ordine soppresso dal Papa Clemente V nel 1312 per essere gradito al Re. Anche il processo di stregoneria di Giovanna d'Arco (1431), fu un processo politico. Alla pulzella che lo ricusa, il vescovo di Beauvais, Pierre Cauchon, replica: "il Re (d'Inghilterra) mi ha ordinato di fare il vostro processo e io lo farò". L'Inquisizione era caduta nelle mani del Potere dei Re; si sa cosa doveva diventare nei secoli che seguirono: una polizia di stato, tanto nelle mani dei Re di Francia o di Spagna, che a Roma e in Fiandra.


Conflitti tra gli inquisitori

All'inizio, la missione di braccare gli eretici fu affidata da Roma all'ordine nuovo dei Frati Predicatori, religiosi istruiti e itineranti. Ma i Domenicani - i "cani del Signore", "Domini canes" - non furono i soli religiosi incaricati delle inchieste Inquisitoriali. I Francescani, i Carmelitani e gli Eremiti di Sant'Agostino parteciparono anch'essi a questa azione; non senza conflitti di competenze. Che fare quando un eretico fuggiva in un paese vicino? Poteva essere giudicato dall'Inquisitore del luogo, o doveva essere rimesso al giudizio di chi l'aveva incriminato per primo?
Nel 1266, una disputa di questo genere scoppiò a Marsiglia. Essa si inasprì in fretta perché vedeva Opposti due ordini tradizionalmente rivali: "I Predicatori diffamarono Frate Maurin, inquisitore nella provincia di Arles, di Aix e di Emburn, e consigliarono ai fedeli riuniti di rifiutargli l'obbedienza. Il Vice-Priore della casa dei Predicatori di Marsiglia e Frate Jean Gui, dello stesso convento, condussero anche, come testimoni davanti all'autorità laica, due preti (..) che dichiararono che l'Inquisitore eccitava alla rivolta contro il Signore legittimo del paese, Carlo d'Angiò.
Il Frate minore Guglielmo Bertrand, che esercitò le funzioni di Inquisitore (...), fece confessare a questi preti di aver reso falsa testimonianza dietro istigazione dei Predicatori. Frate O. Bertrand convocò questi ultimi, che rifiutarono di rispondere a certune delle sue domande. Egli li scomunicò e fece pubblicare la sentenza a Marsiglia, mentre i Predicatori presentarono appello alla Santa Sede. Clemente IV, il 12 giugno 1266, delegò l'arcivescovo di Aix e i vescovi di Avignone e Carpentras: certo, i Predicatori avevano commesso un fatto grave, ma Frate Bertrand avrebbe dovuto agire con più circospezione e consultare il Papa o un cardinale; così, il Vice-priore dei Predicatori e il frate Jean Gui furono provvisoriamente assolti. Poi, i tre prelati andarono a Marsiglia e infierirono contro i falsi testimoni".


Arrivano gli Inquisitori!

Gli Inquisitori che tutto possono (sino al XIV secolo, anche i Legati del Papa non sfuggivano alla loro autorità) arrivano in città. Sono accompagnati dai loro assistenti e dai loro servitori, ed eventualmente da alcuni gendarmi (tre nel sud della Francia, regione particolarmente "calda"), incaricati di proteggerli. Presentano le loro credenziali, litterae commissionis, al Vescovo del luogo e alle autorità civili, che gli dovranno aiuto e protezione.
Con modus citandi, essi intimavano al curato del posto di convocare gli abitanti e il clero locale per far sentire una solenne predica detta citatio universalis, con la quale l'Inquisitore incitava quelli che si erano allontanati dal giusto cammino, a pentirsi e a riconoscere i loro errori. Il tutto, in un tempo che andava dai 15 giorni a un mese, chiamato "tempo di grazia" o "d'indulgenza". Con lo stesso discorso, egli incitava, sotto pena di essere a loro volta sospettati di eresia, tutti quelli che conoscevano degli eretici o supponevano che alcuni lo fossero, a denunciarli. (Si può immaginare il dilagare di cattiveria e d'invidia che una simile richiesta faceva sorgere).
Si distinguevano tre tipi di processo: il processo per ìnquisitionem, il processo per accusationem e il processo per denunciatorem, a seconda che il sospetto fosse scoperto in seguito ad un'inchiesta, accusato o denunciato. Accadde talvolta che l'intera comunità si rifiutasse di cooperare all'azione intrapresa dall'Inquisitore. In questo caso egli cambiava rotta e si dirigeva verso una contrada più accogliente, o meglio procedeva all'interrogatorio di tutta la popolazione. E' così che, nel 1245-46, gli inquisitori Bernardo di Caux e Jean di Saint.Pierre fecero comparire davanti a loro da 8 a 10000 persone...
Il sospetto che si accingeva a confessare i suoi sbagli di sua spontanea volontà, era dispensato da tutta la pena se l'errore era rimasto nascosto, sconosciuto a tutti. Se, al contrario, lo sbaglio era di pubblico dominio, il colpevole che confessava non poteva essere condannato a morte o alla prigione a vita. Il suo castigo si riduceva ad un qualsiasi pellegrinaggio minore, o ad un'altra forma di penitenza canonica. Alcuni che si sentivano sospettati da un'opinione pubblica scatenata o, che non erano del tutto in pace con la loro coscienza, chiedevano di essere esaminati dall'Inquisitore, al fine di ottenere un certificato di "buona condotta e costumi" (di "civismo", si diceva nel 1793 e al tempo della Liberazione, nel 1945). L'opinione pubblica è sempre più sospettosa e, soprattutto, più repressiva degli Inquisitori di ogni tempo; la storia lo dimostra ampiamente.
I sospetti ricevevano la notifica scritta degli atti d'accusa. Avvertito per tempo (ad esempio, il 20 settembre, per il 24), l'interessato chiedeva ai suoi genitori o ai suoi parenti di garantire per lui. Il fatto di rendersi garanti, non li rendeva sospetti di favorire l'eresia. Del resto, l'accusato era libero di assentarsi, anche durante il suo processo. Ma il più delle volte, il timore che questo fosse interpretato come una prova di colpevolezza, lo impediva. Era invitato a giurare sui Vangeli (toccandoli) di dire la verità; se egli aveva dei nemici, ad enumerarli e chiarire le ragioni dell'inimicizia. Dei testimoni, per esempio, affermano che la moglie dell'accusato è in pessimi rapporti con suo marito; è adultera e di pessima fama: "pro meretrice, dicitur".
La maggior parte dei sospetti, anche per la paura della tortura, si impegnavano ad "obbedire agli inquisitori", a presentarsi "nel giorno e nei giorni che verranno loro assegnati", ad attenersi alle loro decisioni.
Tutti mostravano tanta buona volontà a cooperare, non fosse che per timore di implicare, in un modo o nell'altro, la propria famiglia o le loro amicizie. Poiché l'occhio sospettoso del giudice (e l'opinione pubblica) vedeva lontano, era sufficiente, per essere sospettati, aver assistito per curiosità ad una qualsiasi cerimonia catara, aver seguito il proprio marito in una simile avventura, aver ceduto alle pressioni di una comunità devota all'heretica pravitas. Alcuni Inquisitori, tuttavia, erano coscienti delle difficoltà che si trovavano nello stabilire una separazione netta e ben definita tra la fede di un Perfetto e l'interesse per la novità.


Gli ausiliari della giustizia

A fianco dell'Inquisitore si trovava, oltre ad un socius, un Frate dello stesso ordine, che aveva il compito spirituale di accompagnarlo e sostenerlo nella propria impresa. Talvolta un vicario, un "gerente" ("vice gerens"), un "luogo tenente" ("locum tenens") incaricato di assisterlo, alleggerirne il peso del lavoro, ma che non godeva del diritto di condurre a termine da solo un processo inquisitoriale.
L'Inquisitore poteva anche avvalersi di giureconsulti, di canonisti e di teologi, che l'assistevano con i loro consigli. Tutti erano tenuti, sotto pena di scomunica, al segreto, come del resto lo erano l'Inquisitore e il Vescovo.
il tribunale comprendeva anche dei cancellieri o notai, nominati dalla cancelleria apostolica, incaricati di annotare scrupolosamente le deposizioni dei testimoni o degli accusatori e le confessioni degli accusati, nonché di farle ripetere se queste ultime erano state ottenute in seguito alla tortura perché, come tali, non avevano alcun valore. Anche i notai erano tenuti al segreto: era il loro modo di proteggere l'accusato che all'esame si rivelasse innocente. il tribunale disponeva inoltre di sergenti d'arme, messi, carcerieri, tutti giurati.
Il tribunale non era solo a preparare la sentenza, comprendeva una specie di giuria, un certo numero di assessori, di "boni viri" o uomini saggi, che l'inquisitore aveva giudicato utile chiamare, senza alcun limite né di numero né rispetto alla qualità delle persone. Erano, il più delle volte, chierici, religiosi e giureconsulti laici. Si sottoponevano ad essi degli estratti del dossier, senza citare nessun nome. Il tribunale teneva conto del loro parere. Benché questo non fosse decisivo, gli Inquisitori lo seguivano, spesso, quando non lo modificavano nel senso dell'indulgenza.


Alla ricerca dei sospetti

Si finiva nel numero dei sospetti o per autoaccusa, per poter essere discolpati ufficialmente, ricevendo un certificato religioso di buona condotta e retti costumi (chi potrebbe dirsi un perfetto cristiano senza commettere un peccato d'orgoglio?) - o per denuncia collettiva per fama, reputazione, infamia, (era previsto che le accuse infondate venissero punite altrettanto severamente che la stessa eresia, ma come impedire che le cattive lingue si agitassero in un simile clima?) - o per delazione di spie di professione. I pentiti, da parte loro, si impegnavano a rivelare il nome dei loro correligionari.
In un buon numero di casi, sia che si trattasse di una bravata, sia per desiderio di martirio, sia per il sentimento di solidarietà con i propri correligionari o per altre ragioni, molti eretici non dissimulavano le loro opinioni. D'altra parte, dove, negli spiriti infuocati del Medio Evo, stava l'ortodossia, quali evidenti frontiere la separavano dall'eresia (e si potrebbe dire lo stesso anche dei cristiani d'oggi)?
Inoltre, nelle regioni invase dall'eresia, era spesso difficile non avere contatti, fosse anche di semplice vicinato, con gli eretici, e tutti finivano col "puzzare" di eresia.
Dopo l'esame degli atti d'accusa e delle Spiegazioni dell'accusato e tenuto conto del parere degli esperti, dei giurati e dell'avvocato della difesa, i sospettati potevano essere classificati secondo tredici diverse categorie. Variano da: "debolmente sospetto di eresia", "fortemente sospetto di eresia", "gravemente sospetto di eresia", a: "diffamato e sospetto", o "ha confessato e scontato la pena, ma è recidivo", o "ha confessato e non ha scontato la pena, ma non è recidivo", e così di seguito. I giuristi dell'Inquisizione, tutti presi da distinguo molto sapienti, avevano stabilito una dotta gerarchia di possibili colpevolezze: gli heretici imperfecti che, persuasi di essere in errore, ritrattavano tutto subito e dichiaravano dì sottomettersi alle pene che gli sarebbero state inflitte; gli heretici perfecti o pertinaces, che si intestardivano nei loro errori; gli heretici relapsi, i recidivi; gli heretici negativi, che rifiutavano di riconoscere di essere in errore e ricusavano le testimonianze dei testimoni a carico; ed infine gli istigatori, i favoreggiatorì e i difensori degli eretici, i contumaci, gli evasi vivi e morti.


La sorte degli eretici

Gli eretici riconosciuti come tali che non si denunciavano spontaneamente, erano invitati a presentarsi davanti al Tribunale, sia mediante tre successive ammonizioni portate a domicilio dal curato, sia con avviso letto durante la predica, la domenica. Se essi non si presentavano personalmente, o per tramite di un procuratore, venivano dichiarati contumaci (la "contumacia" etimologicamente è "un'ostinazione orgogliosa", dal latino "tumere", "gonfiarsi", "enfiarsi" - cfr. "tumore") e di conseguenza scomunicati. I sospetti semplicemente colpiti d'infamia, o diffamati (dal latino "fama", "reputazione") erano sottoposti allo stesso trattamento. Dal 1252, l'ostinazione degli eretici a non svelare i loro correligionari, ben più che il rifiuto a ritrattare, veniva punito con la tortura.


I denunciatori

Le accuse provenivano, di solito, da denunciatori "di professione", da "sicofanti", dicevano gli Ateniesi. Essi erano pagati (un marco d'argento per la cattura di un eretico, o almeno 20 soldi tornesi) a spese dei sospetti. L'Inquisizione finì per Organizzare una vasta rete di delazione, che fu imposta a tutti come un dovere (fatta eccezione del segreto confessionale). Dovere civico, o patriottico, si diceva nel 1945. Non bisogna dunque meravigliarsi che vi sia stato un padre che denunciava il proprio figlio o la moglie, una moglie che denunciava il marito, un figlio che denunciava il padre: questo era nella logica del sistema, soprattutto se il fatto di non denunciare poteva fare di voi un sospetto. La malignità naturale dell'uomo faceva il resto. L'età richiesta per la validità della testimonianza era di quattordici anni per gli uomini e di dodici per le donne: l'età della ragione. Ma si conosce il caso di un bambino di 10 anni ammesso a deporre contro suo padre, sua sorella e "un gran numero di persone". Due accusatori, fossero essi stessi "infami", eretici pentiti, omicidi, ladri, stregoni o indovini, potevano bastare. Ma spesso essi erano più di due. Denunciare diventò un'opera pia. Non era negli usi rivelare il nome degli accusatori: l'esperienza aveva dimostrato che essi, talvolta, correvano grossi rischi dì rappresaglie Sanguinose da parte dei parenti, degli amici o dei correligionari del sospetto. A maggior ragione non si procedeva ai contraddittori" benché non fossero esclusi ed anzi, in certi casi, fossero stati raccomandati dalle autorità.
E' così, per esempio, che Bonifacio III, non volendo lasciare "I suoi Giudei di Roma senza difesa... ed esposti all'oppressione e all'ingiustizia", ordinò di rivelare il nome degli accusatori e dei testimoni. Nei casi in cui questa procedura si rivelava impossibile, spettava all'Inquisitore togliere ogni valore ad una denuncia che egli poteva supporre non ispirata da sentimenti di simpatia. Ad ogni modo, egli doveva rivelare il nome dei denunciatori o dei testimoni a carico ai suoi ausiliari, assessori e notaio, e a partire dal 1261 ai boni viri che, l'abbiamo visto, assolvevano in qualche caso la funzione di giurati. Se l'Inquisitore non agiva in questo modo, era dovere del suo entourage denunciarlo ai capi religiosi, al Vescovo e, all'occorrenza, allo stesso Papa.
Le false testimonianze, le accuse menzognere ,erano punite duramente quanto l'eresia: prigione a vita, a pane secco e acqua, le catene ai piedi, confisca dei beni, multe, ecc.


L'appello al Papa

Non era raro, inoltre, che dei colpevoli facessero appello a Roma (il codice prevedeva anche questa possibilità): la loro richiesta spesso veniva ben accolta. Si cita il caso di un Francescano che aveva aderito al movimento dei Fraticelli, al fianco dell'antipapa Pierre de Corbiéres. E questo non è poco, da parte di un religioso. Condannato alla prigione a vita, nel 1329, egli vide questa condanna trasformata dallo stesso Inquisitore in penitenze canoniche, messe e preghiere per tre ani. Cosa che non impedì al Francescano di indirizzare una supplica al Papa Benedetto XII il quale, con una bolla datata Il aprile 1335, lo reintegrò nel suo Ordine e "gli fece sperare che se egli avesse assolto fedelmente per due anni la sua penitenza canonica, questa gli sarebbe stata condonata". Notiamo l'involontario lato comico di una punizione inflitta a un Francescano sotto forma di "penitenze canoniche, messe e preghiere", come se la sua vocazione non lo impegnasse a questo per tutta la vita!
Mai, durante i secoli più drammatici del Medio Evo, sono stati condannati dei sospetti senza ascoltarli, interrogarli, permettergli di difendersi, di pentirsi, e di abiurare (pensiamo al destino riservato ai Giudei, ai resistenti, agli oppositori, ai presunti "trotskisti" da parte di certi regimi non tanto lontani e, soprattutto, al modo in cui di loro è stato deciso) Mai la nostra epoca ha detto "E' meglio lasciare impunito un crimine che condannare un innocente", come ha affermato il Concilio di Narbonne, nel 1243.
H. C. Lea, che pure incarna alla perfezione un pensiero laico particolarmente virulento, quello dell'Ottocento, scrive (op. cit. I, 613): "…nella maggior parte dei casi (il corsivo è mio), gli Inquisitori inclinavano alla clemenza". Poi aggiunge (op. cit. I, 480): "Il rogo dell'Inquisizione non ha fatto relativamente che poche vittime". Suggeriscono una simile politica un buon numero di testi, tra cui quello della zizzania (Mat. 13, 36-42), che rinviano la punizione dei peccatori "alla fine del mondo", in conflitto con altri testi ugualmente del Vangelo. Quando non era lo stesso San Paolo a porre problemi (cfr. I Cor. II, 17-19 Tito, 3, 9-11).
In linea generale, valutati in base alla nostra sensibilità contemporanea (non parliamo di comportamenti), alcuni di questi castighi possono sembrare assai duri, se non crudeli, e assai spesso "umilianti" (11. C. Lea op cit., I, 620). Bisogna però considerare che anche la stessa epoca è di una estrema violenza e crudezza. Lo attestano le vendette private, la disciplina scolastica, la messa al bando dei lebbrosi, ed altri fatti del genere.
Bisogna anche tenere conto del fatto che l'opera dell'Inquisizione è animata, in linea dì principio, da una volontà di educare le masse popolari e di rieducare gli eretici, il cui livello sociale e culturale è, nella maggior parte dei casi, assai basso. Occorreva dunque, per raggiungere gli obiettivi che l'Inquisizione (e attraverso essa la società) si poneva, utilizzare dei metodi forti, il cui simbolismo saltasse agli occhi di tutti e si imprimesse nei ricordi. A conti fatti, gli attuali processi di socializzazione sono senza dubbio meno brutali; ma alcuni violentano le coscienze con altrettanto vigore.


Sui buoni processi-verbali

Alcuni hanno affermato che tra le notizie colte al volo al momento della deposizione, verosimilmente nell'idioma dell'accusato, e il verbale finale redatto in latino, potevano esserci sensibili differenze ed anche contraddizioni. E' un problema che chi è stato chiamato a redigire il verbale di una riunione conosce bene.
E' evidente che tra quello che è stato chiamato il sumptum, trascrizione delle risposte degli accusati "semplicemente come essi parlavano", e il latino sapiente del giurista che le "traduceva", potessero emergere delle sfumature. Sono state queste a deformare le confessioni - o i dinieghi - dell'incolpato? E' poco probabile. Le "confessioni" venivano lette e rilette davanti all'accusato, tradotte in lingua volgare, spiegate. L'accusato poteva sempre, se c'era bisogno, rettificare ciò che si pretendeva di fargli dire. Del resto, perché l'Inquisitore avrebbe cercato di "travolgere" lo sventurato quando (lo prova tutta la procedura con la sua complessità e minuzia) il progetto profondo, essenziale dell'inquisitio era salvarlo? Se i giudici avessero avuto come vocazione fare il più gran numero possibile di vittime, se essi non si fossero sentiti, in coscienza, obbligati a rispettare alla lettera il codice che gli era stato proposto, essi non avrebbero impiegato tante formalità, né passato tanti giorni ad interrogarli.
B. Hamilton riassume la sua opinione su questo problema, scrivendo: "The inquisitors seem to have been scrupulously honest in recording deposition". E di fatto, di tutte le accuse che sono state fatte contro l'Inquisizione, non c'è mai stata quella di aver falsificato le deposizioni. Poiché quello che i giudici volevano ottenere era una confessione e il pentimento, più che confessioni criminali.


Un procuratore fiscale

I tribunali vescovili dell'Ordinario, praticavano un altro tipo di "diffamazione". Un promotore della Fede e dell'Inquisizione, o procuratore, metteva in moto l'inchiesta del giudice ufficiale sulla base di un promemoria concernente l'uno o l'altro sospetto. "E come - scrive J. Marx (op. cit., p. 85) - il procuratore fiscale dell'Inquisizione si trovava ad essere il procuratore fiscale secolare, ne risultava un aumento dell'influenza reale in seno al tribunale o alla stessa base dell'azione giudiziaria". Nel 1486, è il procuratore fiscale che chiede che l'incolpato. sia messo sotto tortura: si può veramente parlare di inquisizione fiscale... Il ruolo del procuratore andrà aumentando, tanta che l'Inquisitore finì per fare la figura del giurista della Chiesa.


Presenza dell'Avvocato

L'incolpato poteva far appello ad un avvocato perché lo assistesse in tutte le fasi della procedura, a condizione che fosse "probo, leale, non sospettato di eresia, esperto nel diritto civile e in quello canonico, e zelante nella fede". Tutte queste qualità facevano sì che essi non sostenessero necessariamente l'innocenza dei loro clienti, ma piuttosto sottolineassero le circostanze attenuanti chiedendo una pena leggera.
Nel 1248, i vescovi riuniti a Valenza stabilirono che da quel momento gli avvocati non fossero più ammessi, per evitare che essi ritardassero le operazioni ("negotium") con le loro alte grida ("per advocatorum strepitum et figuram").
L'accusato aveva il diritto di produrre dei testimoni a sua discolpa, di farli interrogare in sua presenza, di difendersi da solo per un tempo lungo quanto voleva, di presentare memorie o citazioni preparate prima, di chiedere difensori d'ufficio. Di tempo in tempo, l'Inquisitore faceva delle domande, di spiegazione o di chiarimento, in base ad un questionario che variava a seconda dell'eresia in cui era caduto l'imputato. E' l'origine, questa, dei manuali specializzati che cercano, attraverso domande appropriate, di eludere una difesa che può, in certi casi, essere estremamente sottile. I manuali inquisitoriali ci danno numerosissimi esempi di questa astuzia. Per esempio, all'Inquisitore che gli dice: "Noi crediamo che lo Spirito Santo procede dal Padre al Figlio", l'accusato risponde: "Anche io lo credo" (sottolineando: "Io credo con sicurezza che voi lo crediate, ma per parte sua non lo crede"). Altro esempio: "Credi che il matrimonio sia un sacramento?", l'imputato risponde: "Se Dio lo vuole, io lo credo!" (sottolineando che egli non crede affatto che Dio lo voglia). E così di seguito.
Certi eretici danno prova di una tale abilità intellettuale, nella difesa dei loro punti di vista, che i manuali raccomandano di ricorrere ai servigi di "teologi e giuristi smaliziati" per disputare con loro. La pronuncia di un giudizio inizia sempre col richiamo che i mezzi della difesa sono stati esauriti, "expeditts defensionum processibus" Alle prove derivanti da testimonianze che potevano essere inficiate da errori, o da denunce ugualmente sospette, gli Inquisitori preferivano di gran lunga le confessioni. Per ottenerle promettevano salva la vita, l'esenzione dalla prigione o dall'esilio.
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Messaggioda GrisAdmi » sab gen 05, 2008 4:18 pm

Capitolo terzo

UN MODO PER RECUPERARE I PROPRI BENI

Un certo Arnaud Sicre, di Aix, è sottoposto ad un'inchiesta. Egli racconta:
"Circa tre anni e mezzo fa, non ricordo meglio il periodo, mi recai da mio fratello Pierre Sicre che abita a Seo d'Urgei, e gli domandai consiglio per recuperare la casa di nostra madre, Sibille den Balle, che era nelle mani del conte di Foix, a titolo di ipoteca per l'eresia di nostra madre. Pierre mi rispose che non vedeva altro mezzo di recuperare questa casa se non quello di prendere un eretico e consegnano al potere di un signore. Gli dissi, allora, che era stata messa una taglia di 50 lire tornesi su Pierre Maury, Guillemette Maurf, di Montaillou, e Raimond Issaura, di Larnat, così come molti altri della diocesi di Pamiers. Mio fratello mi rispose che se io avessi potuto scoprire un eretico, avrei potuto recuperare tutti i beni perduti per l'errore di nostra madre".
Si reca dunque dalle autorità per metterle a parte del suo progetto. Adempie "fedelmente" la sua missione. Poiché i suoi contatti con gli eretici (certi sono riusciti a fuggire dal "muro (la prigione) di Carcassonne") sono stati fruttuosi, il "mio detto signor vescovo" lo fa tornare per completare le informazioni su "i fatti e detti" dei sopracitati eretici. Segue un resoconto lungo e minuzioso. Ma egli è stato a contatto con degli eretici. Potrebbe, senza volerlo, essere stato contagiato da questi "figli delle tenebre". Così il vescovo certifica che è dietro sua richiesta che ha compiuto tale lavoro (che non era d'altronde senza rischi, i Catari uccidevano infatti facilmente gli agenti provocatori). Il 14 gennaio 1322, gli rilascia dunque un certificato: "Noi, Vescovo suddetto, abbiamo inviato nell’anno 1320, (notiamo che tale salvacondotto non è accordato che due anni dopo i fatti), Arnaud Sicre, alias Baule, di Aix nella nostra diocesi, in Catalogna e nel regno dì Aragona per scoprire e ricercare con precauzione, discrezione e diligenza alcuni fuggiaschi ricercati per eresia e alcuni eretici che si nascondono in queste regioni senza essere conosciuti come tali; e perché potesse con maggior efficacia trovare, fermare e arrestare quelli che ricercava, e perché potesse apparire esteriormente uno della loro "famiglia" (poiché essi sono furbi e scaltri), noi abbiamo permesso al suddetto Arnoud di fingersi esteriormente simile a loro, nelle loro pratiche, particolarmente in presenza di uno o due eretici (infatti, senza questo, non avrebbero potuto fidarsi di lui) a condizione, tuttavia, di non credere nell'intimo ai loro errori e di non cedervi; il quale Arnoud, ingannando il "perfetto" eretico Guillaume Bélibaste attraverso questo pietoso inganno, e fingendo d'essere suo amico, lo condusse via da là con astuzia e lo portò fino al territorio del visconte di Castelbon, sotto la giurisdizione del conte di Foix, dove lo fece arrestare e imprigionare, finché venne ricondotto sotto il potere della Chiesa, il che era il suo obiettivo principale. Questo eretico, arrestato grazie al suo lavoro e alla sua diligenza, fu da lì condotto alla prigione dell'Inquisitore di Carcassonne, da cui era appunto fuggito". (Le evasioni non erano rare, anche dalla prigione di Carcassonne).


Una eretica tenace

Il Registro dell'Inquisitore Jacques Fournier (1318-1328) riporta molti altri fatti che meritano l'attenzione degli storici. Eccone uno tipico. Una tale Raimonde Guichou è più che sospettata. E' stata interrogata dal "mio detto signor vescovo" (non si tratta dell'Inquisitore) Ha fatto la sua "confessione in via giudiziaria, regolarmente, con giuramento.. - senza terrore, minacce, o altra tortura, spontaneamente". Dopo, ella ritratta. Il vescovo le ordina "due volte, tre volte e molte altre ancora", di presentarsi di nuovo per confermare "pienamente e integralmente" la sua prima confessione. E questo "entro la festa di Santa Maria Maddalena" cioè, per noi, il 22 luglio (1322) - (Osserviamo, per inciso, come questo mondo, totalmente cristiano, conosca a quale data corrispondono le feste dei santi e si orienti su di esse) - Se non si ripresenterà "si dovrà procedere contro di lei in quanto impenitente".
Il 5 settembre, la suddetta Raimonde non si è ancora presentata. Il Frate Gaillard de Pomiés, dell'ordine dei Predicatori, del convento di Famiers, la richiama "una seconda e terza volta". Ma Raimondo è "gravemente malata, come si vede dal suo aspetto". Ella ripete che rimane fedele alla sua precedente deposizione e che "non ha mai conosciuto nessuna forma di eresia". Il suddetto Frate Gaillard le fissa la data della rivelazione di San Michele, in settembre (il 29) per "confessare perfettamente e integralmente la verità... altrimenti Si procederà contro di lei come impenitente e colpevole ostinata, come la prassi richiede, e da allora non sarà più ascoltata, se non secondo le disposizioni canoniche".
Il 3 marzo 1323, la suddetta Raimonde è prelevata da Chateau des Allemans. Le si leggono le sue confessioni, le sue testimonianze, le sue ritrattazioni ("fatte in modo arrogante"), gli avvisi che le sono stati rivolti, la sentenza di scomunica di cui è stata oggetto dal 12 dicembre dell'incarnazione del Signore 1322 (1323), Cioè "da più di un anno". Il vescovo le dice inoltre che è fortemente sospettata "d'avere nascosto molto più di ciò che ha confessato". Le domanda di denunciare le persone che l'hanno spinta a ritrattare ciò che aveva confessato di buon grado, Spontaneamente, o regolarmente di fronte alla giustizia. Ella rifiuta con accanimento e spirito indurito", ostinatamente, "benché il vescovo le dica che riceverà ancora la misericordia della Chiesa, nonostante i suoi diversi Spergiuri e il fatto che i termini di dilazione ad essa concessi per ritornare sui suoi passi (alla prima confessione) siano scaduti". Ella dichiara che "mai ritornerà alla prima confessione... anche se sa che la si brucerà per questo".


Un giudeo che ritorna al giudaismo

Baruch, un giudeo tedesco, compare il 14 luglio 1320, davanti al tribunale dell'Inquisizione. E' accusato di essere ritornato alla fede giudaica dopo il suo battesimo. Risponde che ha accettato di essere battezzato, sotto minaccia di morte, formulata dai Pastorelli. Il suo battesimo è dunque nullo. Gli traducono la sua deposizione in lingua volgare. (Il 7 maggio 1375, il Papa Gregorio IX raccomanda ad un inquisitore di inviare predicatori istruiti e "che sappiano l'idioma del paese"). Baruch è ritornato al giudaismo? Risponde "No", invocando il Talmud, Secondo la dottrina del Talmud, se qualcuno perfettamente e volontariamente battezzato vuole ritornare al giudaismo, poiché si considera macchiato, occorre procedere ad una cerimonia di rigiudaizzazione. Ma siccome non è stato perfettamente battezzato, e visto che è stato costretto a ricevere il battesimo, non deve essere rigiudaizzato secondo rito, "poiché pensiamo che un tale battesimo sia inesistente". Dunque non deve essere rigiudaizzato perché in realtà non è stato mai veramente battezzato. Vuole vivere da giudeo perché ha sempre provato "pentimento" di aver ricevuto il battesimo, sapendo che "il peccato di lasciarsi battezzare è più grave che lasciarsi uccidere".
Ma il vescovo pensa che il battesimo, così come è stato praticato, non sia stato ricevuto "né cedendo alla forza, né sotto costrizione assoluta", e che, di conseguenza, Baruch debba "osservare la fede cristiana e credervi". Tanto più, aggiunge, che "la necessità che l'ha spinto alla fede, l'ha trascinato non verso il peggio ma verso il meglio".
Baruch deve dunque ormai osservare la fede cristiana, altrimenti sarà trattato "come si deve", da eretico tenace. Al che, Maestro Baruch risponde sottilmente: "Siccome ignoro ciò che i cristiani credono e perché lo credono, mentre al contrario conosco la mia Legge e perché i giudei credono ciò che credono, e siccome la nostra fede è avvalorata dalla Legge e dai Profeti che ho studiato quale dottore per 25 anni (il corsivo è mio, è un rabbino), se non mi si dimostra attraverso la mia Legge e i Profeti che la fede dei cristiani è conforme ad essi, non voglio né credere né osservare il cristianesimo, e preferisco morire piuttosto che abbandonare il giudaismo, tanto più che sono una reale autorità per i giudei di queste regioni. Ma se monsignore il vescovo o qualcun altro mi prova e mi mostra con la Legge e i Profeti che ciò che credono e osservano i cristiani è conforme alla Legge ed ai Profeti, e che la setta e il rito dei giudei, oggi, non sono più utili alla salvezza, sono disposto a lasciare la setta e il rito degli ebrei, e a passare alla fede e al credo dei cristiani".
Questo dà al vescovo l'occasione di cominciare la più curiosa discussione teologica che si possa immaginare. Un dialogo surrealista tra un giudeo tenace e un vescovo che spera, "con l'aiuto di Dio", di vincere. In traduzione simultanea, poiché "Maestro Baruch non conosce bene la lingua volgare di questo paese".
"In primo luogo la disputa verté sulla Trinità delle persone e l'Unità dell'essenza divina, sui nomi propri delle persone e la loro processione; durò pressapoco 15 giorni e in questa disputa Baruch fu totalmente vinto. Non avendo più niente da dire, confermò che esiste la Trinità delle persone divine e l'Unità della natura divina. E aggiunse che credeva questo poiché era stato vinto dall'autorità della Sacra Scrittura, della Legge e dei Profeti. Confessò anche che Padre, Figlio e Spirito Santo sono i nomi propri delle persone divine secondo le Scritture, e confessò la processione delle persone".
Seguono altri grandi problemi - il Cristo è o no il Messia promesso dalla Legge e dai Profeti? Era Dio e uomo, fatto di divinità e dì vera umanità? - problemi affrontati durante discussioni sapienti che durano prima "otto giorni", "poi tre settimane e più" e nel corso delle quali Baruch è ognivolta "battuto".
"Fu ancora più difficile (dice ancora la deposizione) dimostrare l'immortalità dei corpi umani dopo la resurrezione, e il fatto che questi corpi non avranno più bisogno di cibo né altre necessità di questa vita, che in essi la generazione e la corruzione cesseranno e che i corpi dei dannati potranno essere nel fuoco eterno e non essere consumati, benché dovranno subire una sofferenza intollerabile. Pini per convenire su tutti questi punti".
Domanda sottile di Maestro Baruch e non priva di una certa ironia: "Chiese perché gli obblighi legali dell'Antico Testamento non erano osservati dai cristiani, visto che mantenevano in tutto il resto la fede e il credo dei Profeti, e gli si dimostrò con la Legge e i Profeti che con la venuta di Cristo essi avrebbero dovuto cessare". Sembrò accettare questa spiegazione, rinunciò a chiamarsi Baruch, espresse il desiderio di chiamarsi Giovanni e di diventare cristiano, ma dichiarò che voleva istruirsi ancora leggendo da solo (il corsivo è mio) i libri della Legge e dei Profeti (non parla né dei Vangeli, né delle Epistole).
Al termine di ciò, fu riferito al vescovo che egli "ricominciava a titubare nella fede cattolica". Ci voleva coraggio, perché le autorità lo consideravano ormai come validamente battezzato.


Un esempio di interrogatorio serrato

Il 10 marzo 1250, si procedette alla "confessione" dl un certo Pons Albert, di Couffoulens, venuto spontaneamente, senza essere stato chiamato. Riconobbe che un certo Pela era giunto un giorno a casa sua con degli eretici, dei Valdesi, e che li aveva ospitati per un giorno. (Per non cadere in anacronismi, immaginiamo l'interrogatorio, agli inizi del 1945, di qualcuno che aveva ospitato a casa sua dei collaboratori del regime nazista, o un volontario belga, francese o italiano, delle S.S.). La notte seguente, egli li ricondusse da Pela. Egli ignora dove sono andati in seguito. Riconosce di aver "adorato" con loro, dicendo, dopo tre genuflessioni: "Benedicite", al che gli eretici avevano risposto: "Deus vos benedicat".
Interrogato per sapere se egli ha cercato la loro compagnia, se egli ha dato qualcosa o se ha ricevuto da loro qualcosa, se ha mangiato del pane benedetto dagli eretici, se ha ascoltato la loro predicazione o incitato qualcuno a credere a ciò che essi dicevano, o se li ha aiutati, egli rispose di no.
Interrogato per sapere se egli credesse che gli eretici fossero dei "buoni uomini" (era il nome che gli affiliati si attribuivano) e costituissero una "buona" setta, egli rispose che lo credeva. Anche di fronte alla domanda se egli credesse di poter essere salvato qualora avesse perseverato in questi errori, egli rispose di sì.
Interrogato sull'epoca in cui i fatti accaddero, egli rispose: due anni e mezzo fa circa.
In seguito egli disse di aver reincontrato nella casa di un certo Ruffus, di Couffoulens, due eretici. Non ha parlato con lui e non ha detto loro nulla. Ciò è accaduto da circa due anni.
Interrogato se egli abiurasse l'eresia, ha risposto affermativamente, secondo la formula tradizionale.


Un'anamnesi medioevale

Possediamo, grazie a Jacques Duvernois, la traduzione, sapientemente commentata e annotata, dei registri dell'Inquisizione di Jacques Fournier (1318-1328). Tre grossi volumi in folio, pubblicati nel 1978.
I processi verbali, scritti in latino, ci danno un'idea precisa del modo in cui si svolgevano gli interrogatori. Prendiamone uno a caso. Si tratta della "confessione di Jean Maury", di Montaillou, "del capo d'eresia" (t. III, 870-910):
"L'anno del Signore 1323, il 18 del mese di febbraio (18 febbraio 1324), Jean Maury, figlio di fu Raimond Maury di Montaillou, nella diocesi di Pamiers, che è stato a lungo in fuga per eresia dal regno di Francia, nella regione della Catalogna e del regno di Aragona, ragione per cui egli era fortemente sospettato, fu arrestato da Arnaud Sicre d'Aix, inviato e agente del rev. Padre in Cristo monsignor Jacques, per grazia di Dio vescovo di Pamiers, oltre che del religioso Padre Jean de fleaune dell'Ordine dei Predicatori, Inquisitori della depravazione eretica nel reame di Francia, per incarico della Sede apostolica".
Jean Maury, che comparì "nella camera episcopale della casa del vescovo", giura sui quattro Vangeli di dire la verità intera "... tanto su di sé come imputato, quanto sugli altri vivi e morti, come testimoni". La "confessione" inizia:
"Circa 15 o 16 anni fa, non ricordo meglio l'epoca, vennero in casa dì mio padre Raimond Maury e di sua moglie Alazaìs, mia madre, Philippe d'Alayrac e Raimond Fabre de Rodés, ora defunti eretici, a Montaillou, all'inizio della notte (non ricordo di che giorno). Quando arrivarono io non ero in casa, ma fuori, a guardia delle pecore di mio padre.
Potevo avere allora circa 12 anni. Quando tornai a casa trovai mio padre, mia madre e questi due eretici seduti presso fuoco (aggiunse: essi si sedettero così durante la notte). Ma mia madre non era seduta sulla stessa panca con essi, almeno così ricordo. Eravamo là anch'io, i miei fratelli Pierre, Arnaud, Bernard e Guillaume Maury, le mie sorelle Guillemette, che poi sposò Piquier de Laroque d'Olmes, e Raimonde, che era già sposa di Guillaume Marty de Montaillou, Raimonde vive ancora. Circa i miei fratelli credo che siano vivi ancora Pierre e Bernard, che fu sottoposto a penitenza a Carcassonne. Gli altri due, cioé Guillaume (anch'egli sottoposto a penitenza a Carcassonne), e Arnaud, che è morto in Germania, sono morti.
In presenza di mia madre, dei miei fratelli e delle mie sorelle, mio padre mi disse che Philippe d'Alayrac e Raimond Fabre erano degli uomini per bene e dei buoni cristiani, che non facevano del male a nessuno, avevano una buona fede e non mentivano. Non mi ricordo quali altri discorsi fecero in quella notte quegli eretici, o mio padre, mia madre o gli altri presenti.

- Questi eretici predicarono i loro errori in quella notte? (in latino domandò il Vescovo) - Philippe d'Alayrac parlò molto, quella notte, Raimond Fabre parlò talvolta, ma non ricordo di cosa,

- Voi stesso e altri della casa avete adorato gli eretici in quella notte, o avete loro fatto o ricevuto da loro la riverenza o il "melioramentum"? - No, per quanto io abbia visto o saputo.

- Avete visto o saputo che quella notte qualcuno abbia dato o inviato qualcosa agli eretici? - No, salvo che mio padre e mia madre gli diedero per cena delle pagnotte, del vino e dei cavoli all'olio.

- Un estraneo venne, in quella notte, da voi ad incontrare gli eretici? - No, che io abbia visto o sentito dire.

- Quali furono le persone che mangiarono alla stessa mensa con gli eretici? I due eretici, mio padre e mio fratello Guillaume.

- Gli eretici benedirono il pane nel modo degli eretici e ne diedero, a voi e agli altri? - Non ricordo. Ma so bene che mio padre mi diede del pane che prese dalla tavola di questi eretici. Io mangiavo vicino al fuoco con gli altri fratelli.

- Gli eretici rimasero tutta la notte nella casa ai vostro padre? - Non so, perché dopo cena andai a dormire e il mattino seguente non li vidi più".

E così di seguito per più di 10 pagine.

Ciò che colpisce in questo resoconto è la prodigiosa memoria dei fatti di cui si dà testimonianza. Jean Maury è un semplice pastore. Egli ha la memoria infallibile dei contadini che non sanno leggere. Egli si racconta. E anche sotto la trascrizione in latino e la traduzione in francese, noi ritroviamo le tracce di questa vita semplice.
Qua e là dei fatti che illuminano, di una luce singolare, la vita quotidiana nel Medioevo. Jean Maurv ha avuto quattro fratelli e due sorelle: una famiglia, in totale, di sette figli. Due sono ancora viventi (egli aggiunge "io credo"). Un altro, Arnaud, è morto. Due dei fratelli sono stati "colpiti dalla penitenza" a Carcassonne.
Il pasto "accanto al fuoco": dei pani e dei cavoli all'olio; altrove, egli parla di un pasto a base di agnello e maiale.
Altrove, egli precisa: "gli ho donato (all'eretico) una mia tunica blu, poco resistente, che non potevo portare troppo per il caldo, perché da noi arriva già in maggio o in aprile, e cinque soldi reali, monete che valgono come quelle di Barcellona" (i contadini conoscevano il corso delle monete). Rammento che questi sono i ricordi, di 15 o 16 anni prima, di un bambino di 12 anni.
In che lingua l'accusato è stato interrogato? Senza dubbio non in latino - Nel suo dialetto? La questione che si pose da allora era di sapere se uno dei giudici capisse - L'atto relativo ad un certo Bernard Franque, di Goulier, porta scritto: "gli si ribatte in lingua volgare e parola per parola, e gli si spiegano gli errori fatti da lui…".
La credenza di questi eretici, la "buona fede", quella dei "buoni cristiani" o "uomini buoni", come essi dicevano, presenta degli aspetti curiosi.
Jean Maury continua il suo racconto:
"Mio padre mi disse, quando abitavo con lui a Montaillon, prima che egli non fosse citato o arrestato, che il diavolo era rimasto trentadue anni (davanti) alla porta del Paradiso: poi entrò in Paradiso e introdusse con lui una donna. E quando egli fu in Paradiso, disse a coloro che erano là che avrebbe donato loro una sposa di quel genere, ch'essi avrebbero amato le loro spose e queste li avrebbero amati molto. Il diavolo gli disse anche che il loro signore non gli aveva donato che il bene, ma lui gli avrebbe dato il male e il bene. Essi credettero al diavolo, poiché il male è in maggior quantità del bene, ed ha una fama più vasta. Egli disse loro anche che gli avrebbe concesso di essere signori gli uni sugli altri e di prendere una bestia con un'altra o un uccello con un altro.
Poi il diavolo fece un cielo di vetro, e quando lo ebbe fatto disse che egli era dio. Dio gli rispose che era un dio straniero. E quando Dio gli ebbe detto ciò, il diavolo cadde dal cielo col suo cielo di vetro, con la donna e tutti coloro che avevano creduto in lui. Egli ebbe il mondo in suo potere, giusti e peccatori, ed essi andavano nell'inferno. E tutto ciò era opera del diavolo". E' un'interpretazione popolare della visione catara del mondo. Ciò si vede anche nella deposizione di un altro eretico, Bernard Franque:
"Il dio buono aveva fatto le sue creature, e il dio cattivo le distruggeva, fintanto che il Cristo depose o nascose la sua luce quando prese la carne della Vergine Maria. E allora egli prese il dio malvagio e lo mise nelle tenebre dell'interno e da allora il dio cattivo non può distruggere le creature del dio buono.
E' a causa di questa credenza che io dissi talvolta che c'erano due dei, uno buono e uno cattivo. Credo, e ho creduto tutto il tempo suddetto, che come il dio buono ha fatto tutte le buone creature: gli angeli, le anime umane buone, i corpi, il cielo, la terra, le acque, il fuoco e l'aria e gli animali utili agli uomini - come cibo, per trasporto, per lavoro o per vestirsi - e così i pesci buoni da mangiare; ugualmente il dio cattivo ha fatto tutti i demoni e gli animali nocivi, come i lupi, i serpenti, i rospi, le mosche, e tutti gli animali velenosi.
Le creature buone servono il dio buono, e Dio le aiuta; ma le creature cattive servono il dio malvagio e lui le aiuta nei limiti del suo potere. E così, il dio buono non aiuta le creature malvagie che il diavolo ha generato e il dio malvagio non aiuta le creature buone che ha fatto il dio buono. Ma ciascuno di essi ha le proprie creature, il dio buono le buone, il dio cattivo le cattive, e ciascuno di essi aiuta le proprie e non quelle altrui. Ma l'uomo ha la possibilità di schierarsi con il dio buono o con il dio cattivo. Se si schiera con il dio malvagio questi lo aiuta, se egli si allea con il Dio buono, quello lo aiuta, benché il dio malvagio non possa aiutare tanto quanto il dio buono". In fondo, è posto qui l'inestricabile problema dell'esistenza del male nel mondo e vien fatto un tentativo di dargli una spiegazione che possa soddisfare lo spirito.
Jean Maury, ha creduto "durante il tempo maledetto" in cui ha vissuto nella fede degli eretici, che "nessuna Scrittura è utile alla salvezza dell'anima, salvo i Vangeli, il Padre Nostro, e le Epistole".
La confessione termina con l'enumerazione di tutte le persone alle quali egli ha parlato dei suoi "errori", il documento conclude con un lungo riepilogo, sistematico, dei punti di vista erronei adottati e difesi dall'incolpato. Per esempio:
"Egli intese dire... che il dio buono non aveva creato che gli spiriti e l'anima; che gli spiriti sarebbero ritornati alla fine a lui, ma che il dio malvagio aveva fatto tutte le cose corporali di terra, e che sarebbero ritornate alla terra, infine, tutte le cose che con essa aveva fatto. Egli ha creduto, stando a ciò che dice, che il dio buono ha fatto tutto, tanto gli spiriti che i corpi, ma che il diavolo non ha fatto nient'altro che ritardare gli spiriti e i corpi, perché essi non siano presto salvati, o addirittura non arrivino alla salvezza, facendoli peccare". Ciascun articolo di questa enumerazione, molto analitica, è seguito da una nota relativa alla durata dell' "errore": "Egli ha creduto per 4 anni, almeno, per quel che ricorda", "per 15 anni", "per 15 anni, o giù di lì", e così di seguito per ognuno dei 46 articoli d'accusa.
Jean Maury rinuncia a qualsiasi difesa. Egli si limita alla confessione che farà e che è "vera, regolare e contenente la verità".
Un altro incolpato che sembrò voler ritrattare, finì per dire, per discolparsi: "Io ho confessato di aver creduto per stupidità, mentre in realtà io credevo il contrario di ciò che è contenuto in queste confessioni". Gli si pose la domanda tradizionale: "queste confessioni le ha fatte per timore della tortura, o del freddo della cella, perché indottrinato o indotto a deporre il falso?" Egli risponde: "No". E' per la salvezza della sua anima che ha agito così. Allo stesso modo, Jean Maurv riconosce che non è "sotto la pressione della tortura" che egli ha parlato, che egli non è stato "minacciato di tortura", ne maltrattato", e che se ha confessato non è né "per amore, per paura, per una ricompensa (un premio), per l'insistenza, perché istruito, indottrinato o altrimenti indotto a dare falsa testimonianza", ma "perché questa è la verità": formula che si ritrova alla fine di tutte le deposizioni.
Talvolta l'inquisitore si informa: "siete stato detenuto in prigione? Rinchiuso in qualche posto? Vi hanno inflitto torture o vi hanno minacciato?" "No - risponde un imputato - ho potuto circolare liberamente ovunque nella casa del vescovo".
Jean Maurv chiede l'assoluzione dalla scomunica di cui è stato oggetto, grazia che "monsignore" gli accorda, e di essere trattato "con misericordia".
Egli giura e abiura ciò che segue: "Un lungo elenco dei suoi errori", che termina abbastanza drammaticamente con "... tutti i suoi beni" - il che significa, molto verosimilmente, che i suoi beni vengono confiscati. Segue la lista dei testimoni. E' imponente, il che sottolinea l'importanza, per loro, della causa in questione. "Il detto Jean confessò ciò che precede, depose e abiurò nel modo suddetto, davanti al monsignor vescovo, l'anno, il giorno e nel luogo sopracitato, in presenza, quali testimoni, dei religiosi Padre Raimondo Barthe, priore del convento dei frati predicatori di Pamiers, Bernardo Sabatier, lettore dello stesso convento, Arnaud du Carla, O. P., di detto convento, Bernardo di Taix, monaco di Fontfroide dell'ordine di Citeaux, degli autorevoli signori maestro Ugo di Billéres, giurista di Pamiers, maestro Guillaume Nadin, notaio pubblico di Carcassonne e del monsignor Vescovo, soprattutto per affari dell'Inquisizione, e di me maestro Jean de Sautel della diocesi di Pamiers, notaio pubblico della città di Pamiers e del monsignor vescovo, per i casi di Inquisizione, che ho trascritto la suddetta abiura per ordine di monsignore, in vece del quale io, suddetto chierico Jean Jabbaud, l'ho fedelmente trascritta e corretta in conformità con l'originale".
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Messaggioda GrisAdmi » sab gen 05, 2008 4:47 pm

Capitolo Quarto

L'INQUISITORE IDEALE


Bernardo Gui, nel suo Practica, traccia il ritratto dell'Inquisitore ideale. Egli scrive, dopo aver osservato che questo giudice doveva avere almeno quarant'anni: "Deve essere diligente e fervente nel suo zelo per la verità religiosa, per la salvezza delle anime e per l'estirpazione dell'eresia. Tra le difficoltà e le contrarietà deve rimanere calmo, mai cedere alla collera né all'indignazione. Egli dev'essere intrepido, affrontare il rischio sino alla morte, ma senza arretrare di fronte al pericolo, né aumentarlo a causa di un'audacia irriflessiva. Dev'essere insensibile alle preghiere e alle lusinghe di quelli che provano a conquistarlo; tuttavia non deve indurire il suo cuore al punto di rifiutare proroghe o mitigazioni di pena a seconda delle circostanze e dei luoghi... Nei casi dubbi deve essere circospetto, non dare facilmente credito a quello che sembra probabile e spesso non è vero; non deve rifiutare ostinatamente le opinioni contrarie, perché ciò che sembra improbabile finisce spesso per essere la verità. Deve ascoltare, discutere ed esaminare con tutto il suo zelo per arrivare con pazienza alla luce... Che l'amore della verità e la pietà, che devono sempre risiedere nel cuore di un giudice, brillino nel suo sguardo, in modo che le sue decisioni non possano mai sembrare dettate dalla cupidigia e dalla crudeltà".
Eymeric, nel suo Directorium, part. III, q. I, De conditione inquisitorìs, traccia un ritratto simile dell'Inquisitore. E' un ritratto del buon magistrato ideale d'oggi. Ma si è tentati di dire, parafrasando Beaumarchais: "Considerate le virtù che esigete dai giudici, quanti accusati saranno degni d'esserlo?"
Si può pensare che, nel corso dei secoli, uomini dalla salda fede, che vivevano in una società religiosamente omogenea e i cui punti di riferimento erano religiosi, ma tormentati (a morte, secondo loro) dalle correnti nemiche, siano sempre stati all'altezza delle esigenze dell'Istituzione? Un certo Robert le Bougre, che era stato manicheo (da cui il suo nome di "Bulgaro"), è sempre riuscito a controllare i sentimenti di orrore che - siatene certi - gli ispirava la dottrina che l'aveva abbagliato nella sua giovinezza (pensiamo a S. Agostino, anche lui manicheo per più di dieci anni).
Non c'è peggior aggressività di quella di chi ha cambiato fede. Gli anticomunisti più lucidi, ma anche più violenti, che ho conosciuto, erano per lo più dei vecchi "marxisti-leninisti" convertiti. Tutto questo non per discolpare Robert le Bougre (o il suo alter ego, Conrad de Marbourg), ma per collocarlo al suo posto e nel suo secolo. Vi erano sicuramente, tra i giudici di questo tribunale religioso, dei duri, dei "tough minded', direbbe il sociologo Eysenck, in opposizione a "tender minded". É da escludere che nell'uno o nell'altro caso sì sia arrivati al sadismo? Le reazioni dei Vescovi e di Roma provano che il loro comportamento fu lungi dall'essere la regola e che fu spesso disapprovato dalle autorità civili e religiose, così come dall'opinione pubblica.


Bernardo Gui, inquisitore della Linguadoca

Nacque nel Limousin intorno al 1261. Studiò filosofia e teologia, insegnò logica ad Albi e a Carcassonne, fu priore a Limoges (1305-1307), poi Inquisitore a Tolosa, dal 16 gennaio 1307 al 1323 o 1324. In precedenza aveva partecipato ad un'ambasciata di pace in Lombardia, in Toscana (1317-1318) e in Fiandra (1318). Pini la sua carriera come vescovo di Tuy, in Galizia (1323). E' sepolto nella bella ebiesa dei Domenicani a Tolosa. La sua opera è considerevole per l'eccezionale precisione documentaria, e si occupa delle più diverse discipline: storia, storia dell'Ordine dei Predicatori, cronache, agiografia, teologia. I suoi scritti sull'eresia - Practica officii inquisitionis (1323?) e Liber sententiarum inquisitionis Tolosanae - sono modelli nel genere.
La quinta parte della Practica contiene un'esposizione sistematica delle dottrine e dei riti in uso presso i catari, i valdesi, gli pseudo-apostoli, i beghini e le beghine. E' una tonte preziosa per tutto ciò che interessa le eresie. Bernardo Gui non è dunque un bruto alla maniera delle S.S., né un uomo dalla mediocre cultura, come certi individui utilizzati dal nazismo o dal comunismo. E' un docente universitario che parla di ciò che conosce, capace di discutere da pari a pari con gli eretici più colti. Non è un duro, come provano le cifre relative alle sue sentenze. Egli ha assolto il compito di Inquisitore, come abbiamo detto, per 15 anni, dal 1308 al 1323. Durante questo lasso di tempo si è dovuto occupare di 930 casi. Non ha pronunciato nessuna condanna nel 1315, 1317, 1318 e 1320. In cinque anni un solo intervento. La condanna emessa più frequentemcnte (307 su 390 colpevoli) è la prigione ("immurati"). Nello stesso tempo, 139 sono stati assolti. Ci sono anche, in numero di 143, condanne a portare una o più croci ("crucesignati"); ma 132 ricevono la grazia di non portarla affatto o di non portarla più e ci sono 9 "colpevoli" che partono in pellegrinaggio. Quarantadue (42) vengono "abbandonati al braccio secolare", più 3 "se essi sono ancora in vita".
Quaranta eretici sono esumati, e di questi 36 nel 1312. Si conta anche un esilio, la distruzione di una casa e l'incendio di un Talmud.
Del resto, bisogna notare che noi non abbiamo alcuna idea del numero dì quelli che si accusavano nei "tempi di grazia" e che furono assolti, né del numero dei sospetti sottoposti all'Inquisitio, (all'inchiesta), e che furono rilasciati senza andare oltre; né della percentuale che la totalità dei sospetti, degli incolpati, degli autocritici, rappresenta rispetto alla popolazione totale.

Cliccare qui per visualizzare la tabella:

http://it.geocities.com/apologeticando/tabella.gif


La punizione degli Inquisitori

Ci furono degli abusi. Il contrario sarebbe sorprendente. Certi Inquisitori si dimostrarono troppo repressivi, fecero gli zelanti (H.C. Lea, op. cit. II, 291). Questione di temperamento nel caso dei religiosi, come in quello dei giudici, dei professori o... dei genitori. Certi Inquisitori usarono i loro poteri per arricchirsi, a forza di infliggere multe, e per ostentare un lusso stravagante. Essi furono biasimati dal loro Ordine. Tuttavia, lo stesso H. C. Lea, poco sospettabile d'essere indulgente e moderato, riconosce (p. 595) che sarebbe "ingiusto" accomunare tutti gli Inquisitori nelle stesse accuse. Egli aggiungeva subito, è vero, senza altre prove, che "molti (il corsivo è mio) tra loro le meritano".
Alcuni Inquisitori furono puniti per eccesso di severità. Si conosce il caso di padre Roberto, (soprannominato il "Bougre") che fu sospeso dal suo incarico e poi condannato al carcere a vita. L'Inquisitore Pons du Poucet aveva ordinato di esumare il cadavere di un eretico perché fosse bruciato. Viene avviato contro di lui un processo di annullamento della sentenza nel 1300: non era ancora finito nel 1309...
D'altra parte, il De officio Inquisitionis (circa 1314-1315) dedica un paragrafo speciale alle sanzioni previste per gli Inquisitori che mal adempiono al loro compito. Per mancanza o per eccesso di zelo?


Amenità Inquisitoriali

In un lavoro dedicato agli Anabattisti di Munster (1534-1535), Barret e Gurgand riportano qualche passo scelto dai rapporti dei giudici di Jan di Leyde, il loro "Re". Nella nostra epoca, questi sarebbe stato condannato pesantemente come fautore di disordini, adultero, assassino e poligamo o, meglio, rinchiuso in un ricovero psichiatrico. Siamo nel XVI secolo, epoca di disordini particolarmente violenti e che vede le lacerazioni della Riforma e delle diverse eresie e movimenti sociali. Ecco il colloquio "più o meno parola per parola", "senza tralasciare uno solo dei suoi argomenti", dei giudici con l'incolpato.
"Quando il Re entrò nella sua camera con la scorta che l’aveva prelevato dalla sua prigione, lo salutarono amichevolmente e l'invitarono a sedersi vicino al fuoco. Gli domandarono come si sentisse e se soffrisse nella prigione. Rispose che soffriva il freddo e aveva il mal di cuore, ma che doveva sopportare tutto con pazienza perché Dio aveva disposto così per lui. Poco a poco, sempre parlandogli amichevolmente (perché da lui non si poteva ottenere niente in altro modo) arrivarono a parlare del suo regno e della sua dottrina nel modo che segue". Primo punto dell'interrogatorio:
"I ministri: Caro Jan, sentiamo dire sul vostro governo cose straordinarie e orribili. Se sono come le descrivono, e sfortunatamente questa non è che la verità, noi non possiamo concepire come sia possibile per voi giustificare un tale comportamento con le Sacre Scritture. Il Re: quello che abbiamo fatto e insegnato, l'abbiamo fatto e insegnato a buon diritto, e possiamo giustificare tutti i nostri comportamenti, le nostre azioni e la nostra dottrina davanti a Dio e a chi gli appartiene".
"I ministri gli obiettano che nelle Scritture non c'è problema rispetto al regno spirituale di Gesù Cristo: "Il mio regno non è di questo mondo" ha detto lui stesso".
"Il Re: capisco molto bene quello che voi dite del regno spirituale di Gesù Cristo e non attacco nemmeno i passaggi che voi citate. Ma dovete saper distinguere il regno spirituale di Gesù Cristo, relativo al tempo della sofferenza e del quale dopo tutto né voi né Lutero avete una giusta idea; e l'atro regno, quello che dopo la resurrezione verrà stabilito nel mondo e avrà durata di 1000 anni. Tutti i versetti che trattano del regno spirituale di Cristo, sono in rapporto al tempo della sofferenza, ma quelli che si trovano nei profeti e nell'Apocalisse e che trattano del regno temporale, devono essere riferiti ai tempi della gloria e della potenza che Cristo avrà nel mondo assieme ai suoi".
Questo interrogatorio ebbe luogo nel gennaio del 1536 nel corso di 6 mesi; Jan de Leyde ha dovuto rispondere sotto tortura e non, a domande sulla sua vita, ha dovuto raccontare la sua infanzia, i suoi viaggi, il suo matrimonio a Leyde, il suo arrivo a Munster, la morte di Matisse, la comunione dei beni... No, egli non ha decapitato con le proprie mani più di 7 o 8 persone... Ignora del tutto il fatto che si sia potuto, nella città affamata, uccidere e mangiare bambini... Perché questa avventura? Perché Dio voleva punire il mondo e poiché essi, gli Anabattisti, erano lo strumento di Dio...


L'indulgenza inquisitoriale

Conosciamo il caso dell'eretico, contumace e recidivo, che spoglia, ferisce e uccide preti e fedeli. Egli vien fatto prigioniero venti anni dopo la sua prima abiura. Riconosce i suoi errori e sollecita la penitenza (1248). Normalmente egli dovrebbe concludere la sua vita sul rogo.
Come punizione, invece, viene condannato alla prigione a vita. H. C. Lea commenta il fatto scrivendo: "Questo succedeva, è vero, nei primi periodi dell'Inquisizione".
Infatti, conosciamo ben altri esempi di simile indulgenza e ne abbiamo citato alcuni. Si può dire che il perdono era inscritto nello spirito stesso del codice inquisitorio.
Il concilio di Narbonne (1243) invita gli Inquisitori al discernimento e alla saggezza: "Sforzatevi di portare alla conversione gli eretici, mostratevi, nei riguardi di coloro i quali ne manifesteranno l'intenzione, pieni di indulgenza: la vostra missione ne riceverà una magnifica consacrazione. Il testo continua: "Quelli che rifiutano di convertirsi, non abbiate fretta di condannarli; insistete frequentemente, sia di persona, sia per mezzo d'altri, presso di loro, per spingerli alla conversione, e non consegnateli al potere secolare che con rimpianto".
Lo storico Hamilton ha ragione quando fa osservare che ogni Inquisitore si è trovato necessariamente diviso tra i suoi doveri di giudice, difensore della Fede, e i suoi doveri di confessore, incaricato di salvare le anime, di discernere in esse la parte di ragione e di irrazionale, la parte degli errori dovuti a ignoranza e la parte d'aspirazione ad una religione più autenticamente evangelica, che li agitava tanto pericolosamente. Mai le esigenze della legge e la guida delle anime si sono trovate così strettamente unite in seno ad un solo tribunale.


L'inquisizione fu efficace?

Ciò che colpisce quando si legge l'opera di H. C. Lea, che tende a mettere in luce gli innumerevoli crimini dell'Inquisizione, è che, in ogni momento, mette in evidenza il fatto che le comunità di eretici sopravvissero, proliferarono e continuarono ad organizzarsi per lungo tempo. Nel 1209 esistevano a Roma delle scuole in cui erano professate delle "dottrine manichee" Si contano a Milano diciassette sette eterodosse in piena attività (che del resto lottano tra loro "con accanimento"). I Valdesi bruciati a Strasburgo nel 1212 dichiararono che il loro capo risiedeva a Milano e che avevano l'abitudine dl fargli pervenire il denaro da loro raccolto. Nel 1204, a Piacenza, gli eretici sono tanto potenti da provocare l'espulsione del Vescovo e di tutto il clero. Questi si rifugiarono a Cremona, che li espulse nel 1205.
Non era raro che le autorità comunali riservassero una cattiva accoglienza agli Inquisitori. H. C. Lea cita il caso di "feudatari locali" dell'Imperatore Ottone IV (1210) poco disposti ad aiutare un Vescovo di Torino a lottare contro gli eretici. Vi fu, analogamente, il caso della Repubblica di Venezia (Lea, op. cit., II, 302) che pretese e ottenne che i Rettori da essa nominati fossero sempre consultati dai vescovi e dagli Inquisitori, nel corso delle persecuzioni contro gli eretici. Gli stessi vescovi, non sempre dimostravano lo zelo necessario per portare a buon fine un'azione efficace.
Il Padre Dondaine riporta un caso curioso di corresponsabilità divisa tra gli Inquisitori e altri responsabili. Nel 1285, l'inquisitore domenicano Florio procede contro i giudei di Ferrara dietro l'ingiunzione di un certo Latinus Malabranca: la responsabilità delle sanzioni prese si spartì tra il suddetto Latinus, i giuristi di Ferrara, Bologna e Padova, consultati dal sopracitato Florio, gli autori della legge, i papi Clemente IV e Gregorio X, e… lo stesso Inquisitore. Responsabilità divise, potere indebolito.
Un opuscolo intitolato "De inquisitione hereticorum" (probabilmente di David d'Asburg), della seconda metà del XIII secolo, fornisce alcune riflessioni degne di attenzione. L'Inquisizione, egli scrive, non ha più il fervore di un tempo. Il suo zelo diminuisce. "Prendere e convincere gli eretici - egli scrive - è diventato quasi impossibile, al punto che si dispera di liberarne la Chiesa. Questo per tre motivi. Al momento sono rari quelli che hanno ancora abbastanza zelo e perseveranza per esercitare l'incarico di Inquisitore: poiché gli eretici non ci disturbano apertamente, noi non abbiamo la preoccupazione di combatterli; non desideriamo che una cosa: che ci lascino in pace. Secondo motivo: sono pochi coloro che sanno impadronirsi degli eretici o agire efficacemente contro di loro, gli altri si lasciano ingannare o, meglio, trascinati da una falsa compassione (il corsivo è mio), li lasciano andare, credendo troppo facilmente alle loro dichiarazioni di pentimento. Terzo motivo: mancano spesso le prove richieste dal diritto, necessarie per le condanne". Il più polemico tra gli storici dell'Inquisizione, H. C. Lea, scrive (op. cit., t. II, 302): "In Italia come in Francia, la storia dell'Inquisizione durante il XIV e il XV secolo, è quella di una decadenza".


Le reazioni popolari contro l'inquisizione

L'apice della potenza inquisitoria si colloca alla fine del XIII secolo, dopo non cesserà di decadere perché l'opinione pubblica era mutata e non vedeva più di buon occhio la presenza di giudici che non si erano mai fatti apprezzare.
I vescovi, molto gelosi della loro autorità e più vicini al loro gregge, non impiegavano sempre il massimo di buona volontà nell'aiutare gli Inquisitori nel loro compito.
Il 7 ottobre 1375, il Papa Gregorio XI li accusa di aver, "con la loro negligenza", favorito lo sviluppo dell'eresia. Gli impone di contribuire alle spese dell'Inquisizione e di costruire delle prigioni per gli eretici.
Di fatto esiste uno stato di tensione organica, potremmo dire, - nel senso che è legata alla natura delle cose - tra gli Ordinari e gli Inquisitori. Questo non è tutto.
Arrestare un sospettato, o anche qualche eretico notorio, non era sempre privo di difficoltà. Poteva accadere che la popolazione facesse causa comune con lui e si azzuffasse con i "servientes", la polizia della città.
All'inizio del XIV secolo (1304? 1305?), i capitoli di Santa Cecilia e di San Salvi d'Albi, l'abate e il monastero di Gaillac, si rivolsero al collegio dei cardinali perché questi intervenissero nel conflitto che opponeva "tutto il paese" agli Inquisitori. Alcuni Inquisitori furono massacrati.
La cronaca di un Domenicano del convento di Tolosa, scritta all'inizio del XIV secolo, descrive gli incidenti che hanno visto opposti, in questa città, i giudici dell'Inquisizione e gli eretici che si sentivano sostenuti dalle autorità municipali.
I Frati Predicatori furono espulsi.
Nel XV secolo - periodo, è vero, di crisi per la Chiesa e per la società - l'audacia degli oppositori aumenterà. Nell'ottobre del 1487, Pierre Grand, professore di diritto civile e diritto canonico, predica al popolo di Usseaux, nel Delfinato.
Finita l'omelia: "nessuno gli dice parola o lo saluta, lo si guarda con sguardo torvo ("tortis oculis") e quando, secondo il costume di Usseanx, dice l'Ave Maria, nessuno prega con lui: egli teme seriamente di essere ucciso. Il 10 ottobre, una predica dello stesso è interrotta a causa dei mormorii", anzi di più, perché "contra ipsum rugiebant et murmurabant". Il minimo che si possa dire è che gli uomini di quest'epoca non vivevano affatto nel terrore dell'Inquisizione.
I borghesi reagivano anch'essi. Nel maggio 1306, un certo B. Durant, parlando a nome degli abitanti della città di Cordés, dichiarandosi buon cattolico e ispirato dall'amore della giustizia e della verità, chiede che un certo Cavalier, detenuto nelle prigioni di Tolosa, non sia più maltrattato; che un salva-condotto sia accordato a tutti coloro che volessero venire a testimoniare; che, a causa in corso, ogni azione penale non possa essere attuata se non con la presenza dell'abate di Fontfroide; che venga fatta una revisione delle confessioni che gli sono state estorte, etc....
Talvolta, i figli del condannato e i probiviri scelti per valutare il valore dei beni confiscati, rifiutavano, puramente e semplicemente, di rivelare lo stato esatto di questi beni. Talvolta non c'erano acquirenti, o proponevano prezzi troppo bassi. Nel 1424, occorre reclutare guardie, al costo di 3 fiorini, per assicurare la salvaguardia di un rogo contro gli attacchi possibili degli amici della condannata, una strega.
Gli eretici si armavano, si organizzavano per meglio resistere. Un certo Tanchelm, che propagava un neo-manicheismo in Fiandra e in Zelanda, aveva organizzato un'armata di 3000 uomini che gli permetteva di impadronirsi di Bruges e di Anversa. Egli dichiarò le chiese luoghi di corruzione, "ecclesiae Dei humanoria esse reputandas", le fece profanare e mettere a morte chiunque gli resistesse. Le cose non andarono diversamente nel Mezzogiorno della Francia: quando ne avevano l'occasione, gli Albigesi saccheggiavano e bruciavano le chiese, calpestavano gli oggetti sacri, torturavano i preti che cadevano nelle loro mani. Sarebbe stato strano che i poteri, civile e religioso, non reagissero in nessun modo.
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Messaggioda GrisAdmi » sab gen 05, 2008 4:51 pm

Capitolo Quinto

PERCHE' MORIRE SUL ROGO?


I diritti della coscienza

Qualunque sia la sua volontà di obiettività - di imparzialità, diceva Raymond Aron - lo storico non può restare insensibile alla somma dei dolori che si nascondono sotto la freddezza delle sentenze inquisitoriali.
Il rogo di Montégut brucia ancora.
Io andrei un po' più in là: i Vorkuta e Auschwitz, che segneranno per sempre il nostro secolo con un marchio d'infamia, ravvivano l'orrore che ogni uomo deve provare alla lettura degli auto-da-fè e delle Dragonnades di allora e di oggi.
Detto questo, occorre tener presente e richiamare sempre l'adagio di Spinoza: "Non ridere, non lugere neque detestari, sed intelligere".
Accettare la morte per fedeltà agli imperativi della coscienza, è in sé rispettabile. Ma contrariamente a Pascal, io non credo ai testimoni che si fanno uccidere. O, più esattamente, il fatto di morire per una "causa" non implica necessariamente che la "causa" sia buona, né che questo sia fatto per obbedire alla propria coscienza. L'olocausto volontario della Hitlerjugend, nel 1944, lo prova bene. Lo stesso vale per migliaia di altre vittime di ideologie o messianismi politici, ugualmente perniciosi.
Le sette attuali lottano per la libertà di coscienza, o per il diritto di affermare la loro differenza? Una "differenza" spessissimo più "inglobante", esclusiva, soggiogante, se non totalitaria, di quanto non lo sia, e non lo fosse, la dottrina delle chiese e dei regimi politici ai quali esse si oppongono e che criticano aspramente.
Lutero, Calvino, Cromwell, sono autentici "libertari", che reclamano per se stessi, ma anche per i loro avversari, il diritto (e il dovere) dl obbedire alle esigenze della coscienza? La storia prova che non è accaduto nulla di simile.
Le Inquisizioni non sono solo cattoliche. Il processo di "stregoneria" di Salem, del Massachussets (decine di persone torturate, 19 impiccate, il "mago" lapidato, nel 1692) lo prova.
Il 1793 si ispira più a Rousseau che a Montesquieu: si può parlare qui di una lotta per la libertà di "coscienza"? E che dire della battaglia di Trotski contro Stalin, se non che si trattava di una lotta per il potere, al fine di imporre una certa concezione della rivoluzione proletaria mondiale e del ruolo del partito comunista, il che non ha nulla di libertario, anzi, il contrario? Il XIX secolo, del tutto romantico, ha creduto che il fatto di essere ribelle, il rifiuto di piegarsi alle esigenze del vivere associato, fosse l'indice, la prova, non solo del genio, ma anche di una volontà ferma nel lottare per la libertà di coscienza. Niente di tutto ciò.
H. C. Lea scrive (op. cit., I, 1171), parlando dei Catari, di cui vanta "la superiorità morale": "E' certo che nessun'altra credenza (il corsivo è mio) può produrre una serie più lunga di eletti che cercheranno la morte... piuttosto che acconsentire all'apostasia" ("il loro ardore ricercava il martirio come un mezzo per diffondere le loro idee"). "Dimenticando" così i martiri cristiani, vittime della ferocia romana; i cattolici, da Tommaso Moro in poi, vittime del Re d'Inghilterra Enrico VIII; i protestanti, vittime delle dragonnades; i Livellatori, vittime della intolleranza puritana di Cromwell; i Mormoni,... e gli innumerevoli martiri cristiani del XX secolo ... che hanno preferito la morte all'apostasia. H. C. Lea "dimentica" coloro che hanno lottato contro i. regimi totalitari, l'ammirabile Solzenitsyn, i partigiani, i soldati morti per la patria. "Dimentica", infine, che molti comunisti e nazisti, "operai del nulla", servitori del Male, si sono sacrificati anch'essi coraggiosamente. Il sacrificio di una vita, per quanto sia commovente, non basta a dar valore ad una dottrina, ad un'ideologia, o addirittura ad una religione (infatti, protestanti e cattolici si sono combattuti per secoli, un po’ dappertutto in Europa, senza dimostrare niente altro se non la naturale ferocia degli uomini).
Lea riconosce d'altronde che gli eretici erano spesso uomini violenti, "dal temperamento aggressivo" (II, 235), che per il loro odio per la Chiesa arrivavano fino ad assassinare gli Inquisitori e i preti (op. cit., II, 310-311). Egli racconta (op. cit., I, 620) che un eretico condannato a partire per la crociata In terra santa, non fa niente di ciò, si sottrae alla polizia inquisitoriale, protegge gli eretici, diffonde l'eresia, rapina, ferisce e uccide preti e chierici, esercita il brigantaggio a danno dei fedeli ortodossi.
Di casi simili se ne potrebbero citare molti. Gli uomini che sono pronti a morire per la loro fede, politica o altro, fanno generalmente poco conto anche della vita altrui.
Anche nel caso degli eretici impenitenti, o dei recidivi, l'Inquisitore e il Vescovo hanno il dovere di sollecitarli, di scongiurarli perché si pentano, perché ritornino in seno alla Chiesa. Se il recidivo è particolarmente coriaceo, essi devono chiamarlo spesso al loro cospetto, esperire tutti i modi - la discussione, l'analisi critica dei testi che gli sono serviti per costruire la sua dottrina - necessari a convincerlo dei suoi errori.
Gli si manderà religiosi, di diversi Ordini, incaricati di illuminarlo. Anche sulla strada del rogo, alcuni uomini "di grande probità" lo pregheranno di abbandonare i suoi errori.
Condannato alla pena capitale, avrà diritto a confessarsi, se vuole, e a ricevere l'Eucarestia, se la chiede "con umiltà", al fine di "ben morire". Se egli si pentisse ai piedi del patibolo, se egli abiurasse i suoi errori, scamperebbe al supplizio: la sua condanna sarebbe commutata nell'ergastolo. La volontà di salvare l'anima è evidente. "Tutto ciò che si fa per convertire gli eretici è grazia", sospira Eymeric, nel suo manuale.
Ci si può chiedere che cosa potrebbe indurre certi individui a correre pericoli così grandi e reali, per il semplice bisogno di affermare dei punti di vista non ortodossi.
Affermazione dei diritti di una coscienza più esigente o scandalizzata dalle "turpitudini" del clero, speranze millenariste latenti ed esplicite, sintomi di una certa lotta di classe (direbbero i marxisti strictioris observantiae), anticlericalismo tradizionale nell'Europa medioevale: è impossibile determinare con certezza ciò che ha potuto condurre uomini, talvolta illetterati, a non piegarsi di fronte alle più alte autorità morali e intellettuali della società e della Chiesa.
Forse non sempre tutto è stato puro in una simile fedeltà ad una visione particolare, personale e gregaria, della Fede. Conosciamo il caso di genitori che, nel nostro secolo dei Lumi, rifiutano di salvare i loro bambini non facendoli vaccinare. Per obbedienza, per esempio, ad una lettura letterale di un passaggio mal compreso della Bibbia.
Così come dei "settari" hanno subito crudeli persecuzioni, per fedeltà a posizioni dottrinali di una povertà spesso desolante. E ugualmente vi sono attese millenaristiche morte e per questo senza tregua risorgenti! E che dire, quando si osserva l'atteggiamento di certi comunisti (o di certi nostalgici del nazismo) di fronte al crollo della loro fede, che sembrano attingere, di fronte al cataclisma, ragioni nuove per credere e sperare? Se non che l'uomo è disposto a morire, talvolta, per poca cosa.


Questioni dì vane parole

In una società e in un secolo che si credono e vogliono essere pienamente secolarizzati, può sembrare forse strano che si possa accettare di morire e di uccidere per questioni di fede o, peggio ancora, per una divergenza nell'interpretazione (in sé molto difficile) dei testi che fondano la fede.
H. C. Lea, buon testimone (involontario) degli errori di giudizio e degli anacronismi che hanno animato il XIX secolo (arriva addirittura a parlare (I, 116) delle "superstizioni dell'ortodossia"), ironizza a proposito dei "punti secondari di rituale o di disciplina", "di particolarità dogmatiche" (il corsivo è mio) che "solo spiriti formati dalla dialettica scolastica avrebbero potuto cogliere" (op. cit., II, 237). Nel "calore della discussione", essi hanno esagerato l'importanza vitale per l'esistenza stessa del cristianesimo" di questi "problemi pendenti".
"Problemi pendenti" non lo erano affatto; e quando lo erano, essi derivavano, evidentemente, dal sapere e dalla competenza di "spiriti formati alla dialettica delle scuole" (come il diritto, la filosofia, la medicina, o altre discipline intellettuali). Altrimenti occorrerebbe dire che l'immenso sforzo compiuto attraverso i secoli dai vari Abelardo, Tommaso d'Aquino, Bonaventura, Dun Scoto, Thomas Bradwardine e tanti altri, per chiarire e approfondire il messaggio dei Vangeli è stato totalmente inutile. (Lo era, in rapporto al semplice Cantico di San Francesco; ma ciò non significa che non sia stato ugualmente necessario, e non lo sia oggi più che mai).
H. C. Lea conclude che una Chiesa che considera "imperdonabile" un "attaccamento pervicace a qualche insignificante (il corsivo è mio) errore di dottrina" (p. 774), non solo si allontana dalla semplicità dei Vangeli, ma, anche e soprattutto, rinnega il suo messaggio d'umanità.
In realtà, in una società integralmente costruita su una visione religiosa del mondo e dell'uomo "nelle sue istituzioni, nelle sue credenze, nei suoi postulati e nelle sue abitudini" (M. D. Knowles), nella quale i valori cristiani erano vissuti da tutti come assoluti, intangibili, monolitici, immutabili, ogni attentato portato all'edificio, per quanto superficiale potesse essere, (e non sempre lo era), minacciava, nello spirito della collettività, l'edificio intero. Da qui, d'altronde, le violente reazioni popolari (pensiamo agli attuali sussulti dell'Islam).
In realtà, la Chiesa ha sempre ammesso un certo pluralismo: la diversità degli Ordini Religiosi, delle teologie, delle spiritualità, dei misticismi, ed anche delle forme d'organizzazione, lo prova abbondantemente. Si tratta di un atteggiamento conforme al messaggio cristiano: "Nella casa di mio padre, vi sono molti posti" (Giovanni, 14, 2).
Ma anche in una società "liberale" come la nostra il pluralismo ha i suoi limiti, quelli che condizionano la sua stessa esistenza. Chi è in diritto di definirli, se non quelli le cui competenze in campo sociale e costituzionale, il cui civismo, il cui senso politico, la cui preoccupazione per il bene comune designano naturalmente? Chi ha autorità per interpretare Vangeli di una complessità ideale e dogmatica straordinaria?
In regime democratico, tutti e ciascuno hanno, in linea di principio, il diritto e il dovere di possedere una loro opinione riguardo alla gestione della Cosa Pubblica.. (si sa cosa succede realmente). Ma è ben evidente che quando i problemi raggiungono un certo grado di complessità - vale a dire, in pratica, quasi immediatamente - è bene lasciare la parola a "coloro che sanno", come dice Dante, alle persone competenti.
Gli Inquisitori, uomini di grande sapere e fede profonda, erano dunque qualificati per ben condurre la difficile opera che era stata loro affidata da Roma. Essi avevano il dovere assoluto di intervenire là dove sembrava che movimenti, popolari o no, potessero essere pericolosi per la vita stessa della cristianità. Ora, per loro, l'eresia non è altro che - e non può che essere - così come l'ha definita Sant'Agostino: "una perversità dello spirito e dell'ostinazione della volontà", una forma di orgoglio (e si sa come l'orgoglio, all'epoca, fosse identificato col Male assoluto).
É soprattutto a questo titolo che furono condannate le eresie, ben più ancora che per il loro allontanamento dall'ortodossia o per le loro teorie antisociali. Di conseguenza, l'immaginazione sovraeccitata delle folle favorì i peggiori comportamenti, così come avevano fatto i Romani quando scoprirono il fatto cristiano. E certi Inquisitori condivisero queste mitologie, non senza esitazioni, né senza alcune forme di tolleranza, fatte dello scetticismo dei vecchi confessori che hanno sentito tutto, compreso tutto e, infine, perdonato tutto. Le eresie erano una "rivolta contro ... la religione costituita, gerarchica e sacramentale". Per esempio, il Papa Gregorio VII aveva condannato, nel 1074, il matrimonio dei preti, il concubinaggio, la simonia, l'avidità dei beni terreni e degli onori mondani che avevano invaso il clero. Due anni più tardi, lo stesso Papa doveva vietare al popolo d'assistere alle funzioni dei preti che "non avevano rinunciato a fornicare".
D'altra parte, la reazione popolare trovò assai rapidamente il modo di esprimersi attraverso gli Ordini mendicanti o mediante una vita religiosa personale e più spirituale (fu il caso dei Fratelli della Vita Comune, di Deventer, nei Paesi Bassi, della Devotio Moderna o dei Beghinaggi). Ci fu anche una "eterodossia più sistematica e di un contenuto più ampio, da parte di certi spiriti colti e dotati".
Alcuni movimenti eretici affermavano il diritto di vivere la Verità cristiana, senza Chiesa e senza clero. Ma il dualismo manicheo era più pericoloso e, soprattutto, meno "assimilabile" dalla Chiesa. Infatti, sviluppava una morale anticristiana (senza dimenticare un'organizzazione notevole) che minacciava l'intero edificio religioso e sociale andando, sul piano sessuale, dalla promiscuità organizzata o dalla poligamia alla castità più rigida. Questa atmosfera equivoca, ambigua, minava le basi dell'insegnamento in cui la Chiesa si era prodigata nei secoli. Era necessario mantenere le pecore nel giusto cammino. Questo fu il compito degli Inquisitori. Bisogna cercare di comprendere il loro comportamento, che era d'altronde controllato e regolato da codici e procedure giuridiche, contrariamente al movimenti inferociti delle folle (pensiamo ai massacri del settembre 1792, ai processi sbrigativi degli Einsatz-commando nazisti o al tribunali dell'epoca staliniana.. .), comportamento che, oltre tutto, era caratterizzato da un clima di mansuetudine. E qualora se ne fosse sentita la necessità, S. Tommaso d'Aquino forniva gli argomenti necessari per placare i loro scrupoli di uomini di Chiesa, scrivendo: "Ci sono due cose da considerare riguardo agli eretici: una in rapporto ad essi, l'altra in rapporto alla Chiesa. Rispetto ad essi è da considerare il peccato di cui sono colpevoli e per il quale hanno meritato non solo di essere separati dalla Chiesa mediante scomunica, ma anche di essere eliminati dal mondo con la morte. In effetti è un crimine maggiore corrompere la fede, che è la vita dell'anima, piuttosto che falsificare il denaro, che non serve se non ai bisogni della vita corporale. Dì conseguenza, se i principi secolari, senza ledere la giustizia, possono mettere a morte immediatamente quelli che falsificano il denaro e gli altri malfattori, a maggior ragione, senza ledere la giustizia, è possibile non solo scomunicare ma anche condannare a morte gli eretici, dal momento che sono riconosciuti colpevoli di eresia. Rispetto alla Chiesa, bisogna considerare la misericordia che essa riserva a chiunque si riscatti dai suoi smarrimenti. Ed ecco perché non condanna gli eretici immediatamente, ma solo dopo un secondo errore, come vuole l'Apostolo. E se l'eretico è ostinato, allora la Chiesa, disperando per la sua conversione, provvede alla salvezza degli altri separandolo dal suo seno con la scomunica: infine lo consegna ai giudici secolari, affinché lo facciano scomparire dal numero dei viventi".


La Società del nostro tempo

Una volta ancora, ritorniamo alla società del nostro tempo, ai movimenti di fermento, talvolta drammatici, ch'essa ha vissuto: durante la guerra o negli anni che seguirono o, ancora, quando una minaccia di guerra nucleare appare all'orizzonte o molto semplicemente, quando le sette - o gli immigrati - sembrano una minaccia per il suo benessere o per la sua tranquillità morale, e si comprenderà meglio, forse, la sua condotta. Certi diranno che spettava alla Chiesa il dovere di rispettare al massimo, ovunque e sempre, la libertà di coscienza e che essa non aveva il diritto in alcun modo, nel caso di "devianze" anche pericolose per "l'Ordine costituito", d'applicare la pena di morte.
"É questo ,infatti, senza dubbio - scrive Padre M. D. Knowles, O.S.B. - uno dei fatti più dolorosi e deplorevoli di quest'epoca". Come si fa a non essere d'accordo?
Ma bisogna "comprendere", nel senso forte che Spinoza attribuisce alla parola "intelligere", e non commettere anacronismi.
La maggior parte di quelli che condannano l'uso della pena di morte, l'ammettono quando si tratta di punire coloro che hanno servito i disegni del nemico (le spie) e, in linea più generale, quelli che non hanno rispettato alla lettera i dettami più rigorosi di un'ortodossia (di guerra, di rivoluzione, di "patria in pericolo"); o di mettere alla berlina gli "obiettori di coscienza" in tempo di guerra. La pena di morte fa orrore; ma bisogna ricordarsi che le nostre società liberali, pluraliste e democratiche, l'hanno applicata. Nel XX secolo.
Che gli Inquisitori abbiano avuto la coscienza tranquilla quando condannavano a morte o, più precisamente, quando abbandonavano al braccio secolare la cocciutaggine degli eretici, non dovrebbe stupire. Essi non dovevano essere turbati più di quanto non lo fossero Saint-Just nel 1793, i tribunali militari che, nel 1917, decimarono i reggimenti francesi che si erano ammutinati o, nel 1945, i giudici che condannavano alla fucilazione i collaboratori del nemico. La negazione della verità della fede, la dottrina insegnata dalla Chiesa, doveva inorridirli tanto quanto, per alcuni, rimettere in discussione i diritti sacri, i principi della Rivoluzione, della Patria, della Resistenza o della Società.
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Messaggioda GrisAdmi » sab gen 05, 2008 4:55 pm

Capitolo Sesto

PENE E CASTIGHI

La scala delle punizioni, "vexationes" o "costrizioni", è molto estesa, vasta e sottilmente graduata. Il fatto è che, lo si dimentica troppo spesso, essa intende reprimere non dei delitti propriamente detti (come lo sarebbe, per esempio, un omicidio, un furto, o una violenza), ma delle opinioni, delle attitudini, degli stati dello spirito o della coscienza, dei comportamenti o delle pratiche, il cui grado di colpevolezza poteva variare, e variava, per forza di cose all'infinito, o quasi, fino alle sfumature più sottili. I tribunali dell'Inquisizione avevano per scopo essenziale non la punizione ma la conversione dei colpevoli e il reinserimento nel retto cammino, dei sospettati o degli incerti.
Tra le penitenze, le più ricorrenti che troviamo, cominciando dalle più leggere, sono:

- Le opere pie: costruire qualche santuario, riparare un monastero, costruire un ponte;

- I doni: un calice, una casula, una somma di denaro;

- Le ammende in denaro, in favore di un'opera di utilità pubblica; ad esempio, la ricerca degli eretici;

- Le croci in stoffa;

- L'obbligo di assistere ad una cerimonia pubblica, per esempio una processione con la croce o più croci sui vestiti;

- Le frustate;

- L'esposizione pubblica su una scala (punizione riservata al falsi testimoni), sempre con la croce, due giorni consecutivi, dall'alba al tramonto e le quattro domeniche successive, con le mani legate, a capo raso, vestito in foggia strana (cioé un tessuto grossolano, senza cinta) a piedi nudi, il che costituiva senza dubbio una ulteriore umiliazione;

- I diversi tipi di pellegrinaggio;

- L'obbligo di partecipare alle crociate, ultra mare;

- La prigione preventiva, temporanea o perpetua;

- La degradazione, nel caso di un prete o un religioso;

- La confisca dei beni, nel caso di un contumace;

- Le incapacità (sospensione dei diritti);

- Infine l'abbandono al braccio secolare, "brachio et judicio curiae secularis", il rogo.


Remissioni e commutazioni delle pene

Le penitenze erano rafforzate da sanzioni legali. Nello spirito dell'Inquisizione, dovevano essere assunte volontariamente. Le autorità secolari dovevano intervenire solo nel caso che esse non fossero eseguite.
In generale, erano passibili di remissione. Tutti i motivi erano validi: la vecchiaia, la malattia, le debolezze, i disagi della famiglia, la pietà, la semplice richiesta di persone rispettabili. A condizione, dicono i testi, che l'Inquisitore non agisse in nessun modo "sotto l'impulso dell'odio, di favoritismo, né per amore del lucro né per qualunque vantaggio personale, né contro la giustizia o la propria coscienza".
Nel Medio Evo non si nutrivano molte illusioni sulla natura umana. Talvolta, i motivi ci sembrano meno validi: aver facilitato la cattura di tre eretici (i beni confiscati sono resi, la croce non dev'essere più portata); aver impedito un'evasione di notte mettendosi a gridare; aver rivelato un complotto contro l'Inquisitore.
Logicamente, questi si riservava il diritto, qualora il graziato mancasse ai propri obblighi, di fargli riprendere il supplizio o di appesantirlo, senza essere obbligato a riprendere il processo o ad iniziarne uno nuovo.
Sant'Agostino non aveva proposto che l'esilio o le ammende (ma alcuni dei suoi commentatori, sotto l'influenza del diritto romano, avevano già proposto la pena di morte). S. Bernardo di Chartres scrive: "la verità è figlia del tempo". Graziano, seguendo l'insegnamento del vescovo di Ippona, non propose che pene inferiori alla morte. Per un certo tempo, anche i relapsi sfuggirono alla pena suprema. Poi l'uso la comportò.
A poco a poco, la legislazione inquisitoriale si precisò. Fu dichiarato che coloro che avessero seppellito degli eretici o, essendo laici, avessero dissertato pubblicamente con essi sulla fede (il che fa supporre che in privato la cosa fosse permessa, ancorché con prudenza), sarebbero stati puniti.
"Né i figli, né gli eredi di un eretico che avessero chiesto la "consolazione" degli eretici, potevano ottenere che egli fosse dichiarato insano di mente in quel momento". Lo scomunicato che si rifiutava di comparire entro un anno di fronte al Tribunale, si metteva nella condizione di essere condannato come eretico. (Bisogna dunque credere che la scomunica non impressionasse troppo nel Medio Evo, se un cristiano poteva rifiutarsi per un intero anno di comparire di fronte alla giustizia). Tali sono le regole emanate dal Papa Bonifacio VIII (1294-1303), il nemico di Dante, o, più esattamente, l'oggetto dell'odio feroce del poeta. Occorre notare, però, che il suo pontificato è uno di quelli in cui fu riesaminata la maggior parte dei processi per eresia. Ma anche lui pensava che il castigo aprisse la via ad una migliore comprensione delle cose: "Vexatio dat intellectum" (noi abbiamo rinunciato a questa credenza?). L'immaginazione feconda del Medio Evo, conosceva altre forme di pena più anodine: l'astinenza perpetua, il digiuno durante tre quaresime; durante un anno, la recita di preghiere corrispondenti all'officio di notte e dì giorno, oppure la recita di 10 Pater sette volte al giorno e di 20 a mezzanotte. Il parroco era incaricato di vegliare sulla buona osservanza di tali pene.


L'assoluzione

Tra i "diffamati", si trovano alcuni che sono innocenti: anzi questo appare un caso abbastanza frequente. Dopo l' "inquisitio", l'imputato viene dichiarato "assolto (la parola è significativa) e assolutamente puro da ogni eresia". Gli si consegna solennemente una sentenza assolutoria, nella giusta e dovuta forma, che attesta che l'Inquisitore, "tenendo lo sguardo fisso unicamente in Dio e nell'interesse della verità", considera che non c'è nessuna ragione per sospettarlo ancora. Si tratta di un perdono e non di un mettere a tacere: normalmente, invece, nei periodi di sconvolgimenti sociali, il fatto di esser stato sospettato, anche se ingiustamente, lascia delle tracce. Abbiamo conosciuto tale fenomeno negli anni seguenti la Liberazione.
In questo spirito, se il cristiano così assolto cadeva in eresia, o dava un'altra volta pretesto a sospetti, veniva considerato come recidivo e giudicato come tale. Ad opera, in casi normali, del braccio secolare.
L'assoluzione, anche se piena, poteva ugualmente comprendere delle pene penitenziali come i pellegrinaggi, il portare la croce, digiuni e ammende. Coloro che erano stati sospettati di stregoneria, non potevano portare vestiti di tela durante la quarta vigilia della Madonna. Chi abiurava, prometteva di non aderire mai a nessuna eresia, e pronunciava il suo discorso in vernacolo affinché tutto il popolo potesse capirlo. L'Inquisitore gli ripeteva che doveva star bene attento a non ricadere in atteggiamenti o discorsi che potessero suscitare sospetto; e, infine, accordava dieci o venti giorni di indulgenza a coloro che avevano sentito il sermone e tre anni di indulgenza a coloro che avevano collaborato a questo caso di abiura.
J. Marx afferma che anche nel Delfinato, terra per eccellenza favorevole alla credenza nella stregoneria, il numero delle sentenze di assoluzione fu di gran lunga superiore a quello delle condanne.


Lo sterminio

Una delle punizioni più curiose, e secondo me meno efficaci, fu lo "sterminio" (dal latino "ex-terminus", "frontiera"): l'espulsione, l'esilio, la confisca dei beni. "De terris exterminare", "purgare terram suam ab hereticae pravitate" (Concilio Laterano, 1215). Tale è il significato di exterminare fino al XVII secolo, quando viene sostituito dal più radicale significato di "annientare". Misura poco efficace, diremmo noi, poiché era un buon modo di assicurare la diffusione nelle province non ancora "contaminate" dalla heretica pravitas. Infatti è poco probabile che il sospettato avesse capito l'avvertimento e sì fosse rimesso in discussione. Divenuto "rivoluzionario di professione", per riprendere il vocabolario di Lenin, questi non doveva aver nulla di più urgente da fare che il propagare le proprie idee. L'esilio in Siberia, sotto il regime zarista, è stata una vera e propria cinghia di trasmissione per l'azione e il pensiero rivoluzionari.


Le incapacità

Mi accontenterò qui di citare un passaggio di Cauzons.
"L'eretico era ipso facto colpito da "incapacità" civile ed ecclesiastica, la quale poteva essere estesa ai suoi figli e ai suoi nipoti (fino alla seconda generazione in linea paterna e fino alla prima, in linea materna). Tale incapacità lo rendeva inadatto a intraprendere certi atti della vita civile, ad occupare cariche e a svolgere funzioni civili e religiose... L'eretico non chierico, privato del diritto di testimoniare in giudizio, di stare in alcuni affari quali richiedente, di contrattare, di acquistare o trasmettere a titolo gratuito od oneroso a qualcuno ..., veniva spogliato delle sue funzioni, delle dignità e degli incarichi. Giudice, le sue sentenze non avevano più forza; avvocato, non era più ammesso ad offrire i suoi servizi; notaio, i documenti di sua mano perdevano ogni valore... I sudditi di un signore eretico si trovavano liberati tanto dal loro giuramento di fedeltà che da ogni obbligo verso di lui. I padri perdevano ogni diritto Sui propri figli, il marito sulla moglie, benché persistesse il vincolo matrimoniale..." (Cauzons, t. II, pp. 315-316).
Bernard Gui estese queste pene a quelli che avevano commesso atti che avevano "odore di eresia". Questo era fare il processo alle intenzioni. Questa forma di morte civile, proibita dalla Costituzione belga, (art. 13) fu reintrodotta nel 1944, con effetto retroattivo. Prova che i momenti di sovratensione sociale suscitano automaticamente gli stessi riflessi.
In effetti, un buon numero di queste condanne furono revocate dagli Inquisitori e dai Papi. Dispense pontificie rendevano i discendenti degli eretici debitamente condannati, e talvolta anche a titolo postumo, adatti a ricoprire funzioni e incarichi pubblici. Il famoso giurista Guglielmo di Nogaret, fedele cancelliere del Re Filippo il Bello nell'affare di Anagni e nei processi ai Templari, era nipote di un Cataro.


Le flagellazioni

La flagellazione era comunemente in uso nel Medio Evo. San Benedetto previde questa punizione ("acris verberibus", XXX) per i bambini, "i malvagi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti" (11,76), per quelli che, "dopo essere stati più volte ripresi, non si sono corretti per niente" (XXVIII, 6). La si adoperava in famiglia e a scuola.
Il penitente si doveva presentare a piedi nudi, in camicia e in brache" ("in camisia et braccis", che erano i calzoni dei Galli), senza cappello né cappuccio, a testa scoperta, e doveva portare un cero e delle verghe (le donne, nei loro usuali vestiti). Egli doveva assistere alla messa e al sermone. Poi, dopo il Vangelo o l'offertorio, riceveva la disciplina dal prete officiante. Dopo doveva dichiarare pubblicamente di averla meritata. Talvolta, doveva seguire una processione, dietro i preti e il clero, quindi veniva fustigato nell'ultima stazione.
Così il Re d'Inghilterra Enrico II Plantageneta (1133-1189), che indirettamente aveva preso parte alla morte di Thomas Becket (1118-1170), fu flagellato dai monaci di Christchurch, Canterbury.


Il portare la croce

Il portare una croce in stoffa di color giallo o rosso, che ricopriva il petto e le spalle, talvolta il cappello, o il velo della donna, era uno dei possibili castighi.
Un tale recidivo, autorizzato ad uscire di prigione come sostegno della sua famiglia, dovrà portare un manto nero con croci. Dieci anni più tardi egli fa richiesta al Tribunale di "togliere" le sue croci. Un altro recidivo porterà due croci (che, "propria temeritate", aveva deciso di non portare più) sul suo cappello ("in capucio"), sia dentro che fuori casa. Inoltre egli visiterà, per penitenza, la chiesa della sua città ogni domenica di Quaresima.
Questo portare una (o più) croci (d'ostie per quelli che avevano profanato il sacramento dell'Eucarestia, di lingue per i calunniatori e così, di seguito, venivano accuratamente fissate le dimensioni e la disposizione di questi segni) suscitava gli insulti e le vessazioni da parte dei buoni cristiani (o che si ritenevano tali). I Concili, gli stessi Inquisitori, denunciarono questi odiosi comportamenti, arrivando a minacciare i colpevoli dello stesso supplizio se avessero perseverato, pensando che l'onta e il rimorso fossero una punizione sufficiente. Invano; le folle sono per natura bestiali e repressive.
I testi inquisitoriali ci mostrano alcuni esempi di "pravitas", che suscitano una condanna del genere e che ci possono sembrare strani. Come il caso di un prete che ha accettato di battezzare un cristiano una seconda volta: dubita egli del carattere "indelebile" del battesimo? Egli è condannato a portare, in perpetuo, due pezzi di feltro giallo a forma di vasi, uno dietro e l'altro davanti.
Alcuni ecclesiastici amministravano il battesimo a dei pupazzi di cera usati per fare sortilegi. Altri praticavano malefici. Strano clero. Strani fedeli si rivolgevano al loro curato per volgere in bene le cose intraprese. Ma l'Inquisizione veglia: all'uno impone di portare due vasi e quattro "figure", agli altri due ostie.


Dispensato dalla croce

Gli Inquisitori potevano dispensare dal portare la croce, sia con le indulgenze, sia per evitare gli incidenti e le umiliazioni che ne derivavano. O ancora, per un viaggio o un pellegrinaggio, o in occasione di una festa religiosa.
Un condannato viene dispensato dal portare la croce perché "di propria iniziativa ("sponte"), per amore di Dio e della gloriosa Vergine Maria", ha donato 150 soldi in elemosina alla madre superiora di Riennette (20 marzo 1255).
Invece un tale Guglielmo Bérenger, che era stato dispensato dal portare la croce, si vede costretto a reindossarla e a pagare una multa di 50 lire.
Un uomo chiamato Saissac dice che, per ringraziare il Vescovo che lo ha dispensato dal portare le sue croci, ha donato, la domenica delle Palme, su istanza dell'Abate di Montolieu, 20 soldi ad un monaco di questa abbazia. Un certo Ricard è dispensato dal portare la croce, a condizione del pagamento di una certa somma destinata alla costruzione di un ponte.
Le sermo generalis autorizzano frequentemente a commutare la condanna alla prigione in quella a portare la croce: 58 casi su 1319 nella sola giurisdizione dell'Inquisizione tolosana. In altri casi, sempre a discrezione dell'Inquisitore e del Vescovo, il portare questi segni di infamia viene modificato in visite alle chiese o in pellegrinaggi - quando lo stesso pellegrinaggio (in Terra Santa, in questo caso) non venga sostituito da una multa, propter senectutem, a motivo dell'età molto avanzata del condannato.
Lo stesso H. C. Lea riconosce che "questo potere di attenuare le sentenze viene esercitato frequentemente" (il corsivo è mio). Egli aggiunge: "Questo tipo di indulgenze non era limitato all'Inquisizione di Tolosa" (regione tuttavia assai travagliata dall'eresia). La stessa condanna alla prigione a vita, talvolta veniva modificata in prigione a tempo determinato o, sia l'una che l'altra, in pellegrinaggi o nel portare la croce. Ad esempio: "Venti incarcerati a vita dall'Inquisizione di Pamiers ricevono la croce al posto della prigione. Nel registro delle Sentenze di Bernardo Gui, (su 930 casi trattati da questo Inquisitore) si trovano centodiciannove (119) casi di liberazione con l'obbligo di portare le croci: di questi centodiciannove scarcerati, cinquantuno (51) furono in seguito esonerati dal portare le croci".
I Papi incitavano gli Inquisitori ad impegnarsi su questa strada.


I pellegrinaggi

I pellegrinaggi in Terra Santa, detti "passaggi d'oltre mare", erano i più meritori. Furono, per lungo tempo, i più numerosi. Non era una piccola cosa fare un viaggio in questa epoca; l'avventura costava cara, bisognava affrontare mille pericoli, le difficoltà dell'alloggio e del nutrimento, l'ostilità delle popolazioni e delle lingue straniere. I meriti del pellegrino erano grandi, ma noi non possiamo escludere che ci tosse anche un certo sapore di avventura in questo genere di turismo un po' particolare. Tanto più che i pellegrinaggi, ed i pellegrini, non erano sempre conformi all'immagine, un po' troppo "dolciastra", che ci si fa talvolta.
Gli altri pellegrinaggi si dividevano in pellegrinaggi maggiori (Roma, San Giacomo di Compostella, Canterbury e Colonia) e pellegrinaggi minori (Roc-Amadour, Notre-Dame di Chartres, Saint-Denis, ecc.).
La pena poteva essere commutata in opera pia, se i condannati erano nell'impossibilità materiale o morale di fare il pellegrinaggio. Era il caso dei vecchi, degli infermi, delle donne incinte, dei giovani sposi (per timore della separazione) o delle giovinette.
Qualche esempio per chiarire:
Il 5 ottobre 1251, "gli uomini" da 5 o 6 borghi che avevano "ricevuto" delle croci, ma ne erano stati dispensati, sono costretti a fare i pellegrinaggi minori in otto giorni, i maggiori in quindici, e i "passaggi d'oltre mare" alla prima partenza.
Due fratelli di Salsigne si obbligano, il 29 marzo 1252, a pagare 10 lire per il loro padre morto, al quale era stato ordinato di fare il viaggio in Terra Santa.
Bernardo, dei Martiri, s'impegna a pagare 10 lire "pro recompensatione passagii" (un pellegrinaggio in Terra Santa) e per i pellegrinaggi che avrebbe dovuto fare sua moglie "inferma".
Nell'agosto 1256, c'é una donna sposata a cui è stato ingiunto di fare dei pellegrinaggi "pro heresia". Un altro sospetto s'impegna a cominciare i pellegrinaggi che gli sono stati imposti nei successivi otto giorni. Il 30 ottobre, un altro sospetto promette di farli ... nel marzo dell'anno successivo. Le promesse si succedono, in aprile per il successivo mese d'agosto, se non settembre. Condizioni per l'assoluzione di tutte le scomuniche: il dono di 30 o di 50 lire. Come sempre, quando il colpevole non impegna tutti i suoi beni, ci sono i garanti.
Talvolta, le cose si complicano: un certo Berto ha offerto 20 soldi all'Abate di Montolieu per essere dispensato dal fare i pellegrinaggi cui è stato condannato. Ora, egli li ha donati al nipote di quello. Quindi non aveva concluso l'accordo con l'Abate; ma poiché aveva più volte sentito che questi diceva e ripeteva di essere disposto ad intervenire per tutti, ha creduto che fosse disposto ad intervenire per lui.
I doni non erano rari, quando si trattava d'essere dispensati dal portare la croce: uno dona 20 soldi, l'altro tre oche, un terzo, delle pietre intagliate per la porta dell'Abbazia di Montolieu.
Tre fedeli dichiarano di voler "soddisfare" l'obbligo dei pellegrinaggi non adempiuto dalla defunta Raymonde Barbairane, condannata per un crimine d'eresia. Essi fanno conoscere ciò che hanno ricevuto da lei: uno, una codina di piume, un guanciale, un piumino; un altro, un baule, un capo di vaio guarnito con pelle d'agnello, due pezze di lino, un sacco, un carico di vino, tre sestieri di riso, delle scarpe, tre soldi, un asciugamani. Un terzo, infine, dichiara sotto giuramento di aver ricevuto 7 "bestie da lana", 2 capre, 2 pecore, 2 agnelli. Qualche giorno più tardi, colti da rimorso o, più verosimilmente, sentendosi sospettati, si obbligarono a donare prima di Pasqua 40 soldi per i pellegrinaggi non effettuati dalla defunta Barbairane.
Segnaliamo, infine, che i cavalieri che si erano macchiati dell'omicidio di Thomas Becket, nel 1170, furono condannati a fare un pellegrinaggio ad Antiochia.


La confisca dei beni

La confisca dei beni colpiva non solo il colpevole, eretico pervicace o relapso, condannato alla prigione perpetua o suscettibile di incorrere in questa pena, ma la sua famiglia intera. Un affare concluso da un uomo colpito da simile pena era nullo. Poteva essere rescisso sia che egli fosse morto, sia che fosse vivo.
Un certo W. de Saint-Nazaire e altri, condannati come eretici, rifiutano di scontare la pena di reclusione pronunciata contro di essi (decisione che rende strana l'idea che ci si fa dell'Inquisizione). I loro beni sono confiscati (Tolosa, 8 settembre 1247). Sarà scomunicato chiunque porti ad essi qualunque forma di soccorso.
San Luigi, nel 1259, attenua un po' queste disposizioni. Gli Inquisitori furono invitati a restituire beni confiscati per eresia, eccetto che in tre casi: quello di un eretico debitamente condannato; quello di un eretico in fuga e, infine, quello di un eretico che avesse dato ospitalità ad eretici condannati. In nessun caso, comunque, la moglie poteva essere privata dei suoi beni. Gli eredi di un eretico che abbracciassero la vita religiosa, non potevano essere privati dei beni del defunto.
All'inizio, i figli degli eretici venivano privati del diritto di successione. Infatti, in moltissimi casi, si trovano come acquirenti i figli o le spose dei condannati. "Le autorità accordavano agli eredi degli eretici anche facilitazioni di pagamento". La confisca dei beni finisce cosi per ridursi ad una sorta di ammenda imposta alla famiglia del condannato.
Il sostentamento dei prigionieri era a carico dei signori che avevano beneficiato della confisca dei beni del condannato. Ma, all'inizio, questi beni andavano a vantaggio del Delfino, signore temporale. Non era però questo il caso di coloro che, a diverso titolo, potevano chiedere la loro parte di bottino: i signori, gli Ordinari, gli Inquisitori (sia per proprio conto, sia a nome della Camera apostolica), gli ufficiali del delfinato. Si finì per trovare degli accomodamenti, com'è logico, tra potenti.


Le ammende

Le ammende andavano a beneficio dell'Inquisizione, perché non occorreva, dice l'Inquisitore Eymeric, che esse andassero ai Vescovi "dal pugno chiuso e dalla borsa costipata" ("praelatorum tenaces manus et marsupia constipata"). Le somme così raccolte erano destinate, all'inizio, all' "edificazione di chiese, all'elemosina distribuita ai poveri, alla dote di povere vergini che rischiavano di prostituirsi per fuggire alla miseria e, dice il testo d'Eymeric, soprattutto all'Inquisizione, per coprire le spese del processo, visto che non vi è una causa più nobile e un'istituzione più utile allo Stato, dell'Inquisizione"
Un tale eretico pentito, per esempio, è condannato a mantenere un povero per un anno e a pagare, inoltre, un'ammenda di 10 lire.
I grandi colpevoli non erano i soli condannati a pagare le ammende; lo erano anche, cito: "quelli che si esprimevano come eretici, sia che lo facessero per gioco o per ignoranza", per spacconeria idiota, o in eccessi di collera (e questo la dice lunga sulla situazione spirituale degli uomini del XIII e XIV secolo).
Un tratto di humour abbastanza inaspettato in un codice inquisitorio; c'è scritto: "si chiederanno anche somme di denaro al penitenti particolarmente avari, e così le avremo da coloro che le amano di più".
Conoscendo bene la natura umana, Eymeric consiglia agli Inquisitori di "moderare il loro ardore" in questo genere di esercizio, "poiché nulla - scrive - sarebbe loro più nefasto della accusa pubblica di avarizia e di cupidigia". Non serve dire che è consigliato agli Inquisitori di non accettare né denaro né viveri da parte degli accusati, o dei loro amici, o consanguinei. Un'interdizione dello stesso tipo era stabilita per gli studenti prima degli esami, e i Maestri dovevano giurare di non aver mai ricevuto nulla, nemmeno promesse. Il Medio Evo non nutrì propriamente nessuna illusione sulla debolezza della natura umana.
E' così che Viguier di Montolieu (di "Monte Olivero") e Bertrand Malpuel s'impegnano a pagare, in tre rate, la somma di 150 soldi che un certo Pierre Al aveva ricevuto dagli eretici (sono serviti senz'altro da cauzione). Un certo Alaman di Rogis non ha smesso di dedicarsi alla causa degli eretici, non preoccupandosi per nulla della pena e del denaro. E' condannato ad entrare in prigione, a pagare annualmente 50 soldi per il mantenimento di un certo Pons e a "rimborsare gli Ospedalieri di Saint-Jean per le sue rapine e altri danni". Il che non gli impedisce, una volta detenuto, di "impegnare, per le sue esigenze giornaliere, i propri servitori e vassalli" (26 maggio 1237). Siamo lontani, sembra, dal Gulag e dai Campi N. N.
Jean, di Montégut, s'impegna a pagare 50 lire tornesi per ottenere, "per mandato di Monsignor il Vescovo e degli Inquisitori", che suo padre non sia condannato ad una pena infamante "confusibilis" o pubblica, per "il suo crimine di eresia".
L'eretico "pentito" B. Saissac, è condannato a spendere in opere buone una somma uguale a quella che ha speso per i suoi confratelli valdesi. Ci si fida della sua coscienza per la stima di questa somma.


La distruzione delle case

J. Marx cita, a questo proposito, un testo di Fornier (1354): la casa profanata più volte da queste esecrabili assemblee (di eretici) è distrutta, e la scomunica è lanciata contro chiunque cercherà di riedificarla".
Un altro testo ugualmente rivelatore: nel 1225, a Brescia, diventata "quasi domicilio di eretici", gli eretici e i loro sostenitori fortificano le torri della Città, incendiando le chiese, e "con bocca bestemmiatrice" (osano) cantare scomunica contro la Chiesa Romana e i fedeli della sua dottrina" (si può constatare che, in questo caso, come d'altronde nella maggior parte dei casi, gli eretici non lottano solo per la libertà della coscienza). Risultato: il Papa Onorio III (1216-1227) ordina di radere al suolo le torri di quelli tra gli agitatori "che più avevano proceduto nell'infamia", o di distruggerne un terzo o la metà, a seconda del grado di colpevolezza Le torri non potranno essere ricostruite senza l'autorizzazione della Santa Sede, "affinché i loro cumuli di pietre rimangano a documento della pazzia ereticale e della giusta repressione". Tutti sono scomunicati e non saranno perdonati se non si recheranno a Roma personalmente.
Questo genere di soluzione non aveva aspetti positivi. Il fisco ci perdeva, come i proprietari e i signori. Il terreno, vuoto, lasciato in abbandono, diventava rapidamente un deposito nauseabondo, paradiso dei topi, che provocava l'esodo dei vicini.
Il Re di Francia Carlo V mise fine a questa situazione nel 1384, decidendo, evidentemente con l'assenso della santa Sede, che, salvo in casi eccezionali, le case degli eretici, "sia che fossero ottenute in feudi o enfiteusi, a censo, a rendita, a locazione, o a canone", non fossero più demolite.
Ben prima che fosse presa questa decisione, gli Inquisitori avevano permesso di impiegare i materiali delle case distrutte per riparare o edificare monumenti che servissero ad opere pie, come conventi od ospedali, ma a titolo esclusivo e sotto pena di scomunica per i contravventori.


Esumazione e incenerimento dei cadaveri

La morte non metteva fine all'azione dell'Inquisizione, Nel 1234, il Concilio di Arles decise, ad imitazione di quanto d'altronde facevano le autorità civili, che il cadavere dell'eretico il cui crimine era stato debitamente provato dopo un dibattito in contraddittorio con gli eretici (sempre questa preoccupazione per la forma), sarebbe stato esumato e bruciato. La distruzione con il fuoco serviva a purificare la terra da ogni contaminazione. (Accadeva lo stesso per i cadaveri dei detenuti e di quelli che si suicidavano in prigione).
A condizione, precisò il Concilio, che si potessero distinguere le ossa del colpevole da quelle dei buoni cristiani...
Chi aveva sepolto un eretico nel suo giardino, lo doveva esumare con le proprie mani (sempre il carattere, volontariamente drammatizzato, delle azioni "curative" dell'Inquisizione, che si può osservare in un buon numero dei suoi processi: la volontà di educare e correggere è sempre presente). Allo stesso modo, gli Israeliani hanno bruciato Eichmann, nel 1962, e disperso le sue ceneri in mare.
Le autorità civili avevano cercato di mettere un freno a questo genere di cerimonie macabre. Nel 1205, i consoli di Tolosa avevano deciso che queste azioni non avrebbero potuto aver luogo se non fossero iniziate quando l'eretico era vivo, o se questi si fosse "convertito" allora (in vita). Non se ne fece niente. Gli Inquisitori rifiutarono di adottare questa decisione. Essi ammisero soltanto che non ci fosse la possibilità di confiscare i beni dopo un termine di quarant'anni. Ma i reati rimasero imprescrittibili, come oggigiorno lo sono i crimini contro l'umanità. La "combustio ossium", praticata soprattutto nel Mezzogiorno della Francia, "in partibus Tolosanis", Si svolgeva secondo un rituale adatto a colpire l'immaginazione. Le ossa o lo stesso cadavere venivano trasportate per le vie in mezzo alla folla evidentemente accorsa per assistere ad una cerimonia tanto insolita (e, senza dubbio, non di suo gradimento). Un banditore pubblico proclamava, a suon di tromba, il nome del colpevole, minacciando i viventi di una sorte analoga. Dimostrazione che non impedì la diffusione dell'eresia.
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Messaggioda GrisAdmi » sab gen 05, 2008 5:06 pm

Capitolo Settirno

PRIGIONI, TORTURA, PROCESSI E AUTODAFE'


L'Inquisizione è il primo tribunale ad aver utilizzato sistematicamente la pena della detenzione. Il Medio Evo non era solito usarla: preferiva la pena di morte, la mutilazione (naso e lingua mozzati) o più ancora, nella maggior parte dei casi, il sistema delle ammende, pagabili al Re. Si è dovuto dunque costruire delle prigioni laddove non ne esistevano, o utilizzare le prigioni feudali laddove esistevano (qualche cella umida e puzzolente), reali o episcopali. E' inutile dire che Inquisitori e autorità civili dibatterono più di una volta il grande problema che la costruzione delle nuove prigioni, adatte ai nuovi bisogni della giustizia, suscitava.
Nello spirito dell'epoca, la pena della detenzione era simile alle penitenze che infliggeva regolarmente la Chiesa. La maggioranza dei monaci, dei reclusi, degli eremiti, vivevano in un modo che non era essenzialmente diverso da quello che era imposto agli eretici. Hamilton scrive che la prigionia imposta dall'Inquisizione "had a respectable pedigree". Si sperava che il tempo, il regime ascetico, la solitudine, avrebbero finito per portare consiglio.
"Murus strictus, murus durus." Si conosceva il sistema del carcere preventivo (raramente, e più per impressionare l'indiziato) e, dopo la condanna, la detenzione per. un tempo variabile secondo la gravità della colpa, e la reclusione a vita. Si utilizzavano due tipi di prigioni: il murus durus, o strictus, "col pane di dolore e l'acqua di tribolazione", una cella poco o niente illuminata (modellata sul tipo dei torrioni), che era il castigo estremo; e il murus largus, che sembra. aver preso come modello il monastero, un po’ illuminato e areato, e nel quale i prigionieri godevano della possibilità di passeggiare nel cortile e di farsi approvvigionare dall'esterno. Su 930 processi che ebbe a trattare, Bernard Gui fece imprigionare 307 eretici, cioè circa un terzo.
Negli anni 1244-1246, l'Inquisitore di Tolosa, Bernard de Crux, pronunciò 52 sentenze: 27 contenevano la pena della prigione a vita. Talune contenevano delle "infornate" di condannati: per esempio 33 in un colpo solo, di cui 12 alla prigione a vita.
Il prigioniero poteva essere incatenato ai polsi o ai piedi, "in vinculis seu compendibus", o agli uni e gli altri insieme, per un certo periodo di tempo o a vita.
Le prescrizioni pontificie imponevano le celle separate; ma ci furono dei periodi di particolare affollamento durante i quali i prigionieri furono ammassati in celle comuni.

Grazie e condoni

I condannati potevano, facendo appello a Roma, ottenere qualche attenuazione della loro pena detentiva. Ciò si poteva ottenere sia direttamente, per grazia papale, sia per rinvio agli stessi Inquisitori. Costoro non accoglievano sempre di buon grado la richiesta pontificia.
Non era raro, peraltro, che i prigionieri ottenessero del favori da parte dell'Ordinario o dall'inquisitore.
Ai giovani si offriva il perdono se si arruolavano per andare a combattere gli Infedeli in Palestina. Essi erano dispensati dal portare "la croce d'infamia".
Talvolta, in mancanza di prigione, si lasciava andare libero il condannato a suo piacimento, o lo si affidava ad estranei. La permanenza in prigione non doveva essere sempre così disumana come vuole la leggenda (benché qualsiasi pena detentiva, per quanto breve, sia pur sempre un patimento).
Si dovettero vietare le visite troppo frequenti fatte ai prigionieri da chierici e laici dei due sessi (1306); vietare ai guardiano della prigione di Carcassonne di mangiare e dl giocare a dadi con i prigionieri e di farli giocare tra loro. (Il gioco del dadi era vietato agli "scolari").
Gli Inquisitori spiegano, negli "Acta", i motivi dei favori che accordano ai prigionieri: la durata della pena già scontata, la buona condotta, l'umiltà e la pazienza.
Un prigioniero condannato al carcere a vita perché recidivo, è autorizzato a restare presso suo padre, povero, malato e buon cattolico (Carcassonne, 6 maggio 1246). Un altro "propter infirmitatem", malato, è temporaneamente graziato. Dovrà fare ritorno in prigione, "post convalescentiam", senza attendere l'ordine di rientro, "sine monitione", a meno che non venga richiamato nel frattempo. Un altro eretico, gravemente malato, è sottoposto agli arresti domiciliari, "quousque convaluerit".
La prigionia di un marito ha ridotto la moglie e i suoi bambini all'accattonaggio: il colpevole è rimesso in libertà provvisoria. Lo stesso favore è accordato ad un padre la cui figlia non può sposarsi in sua assenza.
Un certo Arnaud Narbonne può uscire di prigione per andare a lavorare, fideliter, al convento delle monache di clausura di Riaunette.
Tra l'aprile 1250 e il novembre 1256, si contano più di dieci casi di questo genere nella sola regione di Carcassonne.
Si accordano anche dei permessi senz'altra ragione, sembra, che l'indulgenza dei giudici e, soprattutto, del Vescovo: da settembre ad Ognissanti, con il permesso di andare dove si vorrà ("ubicumque placuerit"); dal mese di marzo all'ottava di Pasqua, o "per un tempo indefinito" ma sotto cauzione; da maggio a Pentecoste; da giugno all'Assunzione; dal 15 gennaio al 15 aprile (1251), ecc. Si conoscono casi di prolungamento dei permessi.
Il fatto che le decisioni di condono della pena, dei permessi, del lavoro svolto fuori dalla prigione, fossero prese in un certo lasso di tempo e in una regione, quella di Carcassonne, particolarmente "infettata" e ribelle, permette di affermare che quelle decisioni non erano eccezionali.
Inoltre, accadde che la prigione a vita fu mutata in prigione temporanea, o in pellegrinaggi più o meno lontani (secondo la gravità della colpa), oppure nel solo obbligo di portare una croce. E' così, per esempio, che nel 1323 un condannato al murus strictus, cioè alla prigione, è liberato nel 1329, a condizione di portare la croce d'infamia. Un altro condannato nel 1326, viene anche lui liberato; porterà una croce doppia, sentenza più severa di quella di un cataro ordinario.
Tra il 1308 e il 1323, Bernard Gui accordò 132 commutazioni di pena.
Quanto alle donne incinte, esse erano autorizzate a partorire a casa. Avevano un mese per ristabilirsi. In seguito dovevano fare ritorno in prigione.


Gli sposi si ritrovano

Per gli "emmurés", i prigionieri a vita sposati è autorizzato l'accesso della sposa presso lo sposo (o viceversa). Vale lo stesso se i due congiunti sono "emmurés" entrambi. L'uno e l'altro godono del libero accesso al congiunto. Il Papa Innocenzo IV (1243-1254) aveva vietato che i beni della moglie di un condannato alla prigione potessero essere confiscati. A condizione, evidentemente, che fosse una buona cattolica.
Jeanne, vedova di B. de Latour, religiosa di un monastero, ha frequentato degli eretici, ha ascoltato le loro prediche, ne ha ospitato a casa sua, ha fatto elemosina a dei Valdesi, ha spergiurato: è condannata a vivere in una piccola camera separata ("camerula separata") affinché essa non abbia dei contatti con altre suore. La priora di Lepinasse provvederà al suo sostentamento.
In linea generale, il sostentamento dei colpevoli è a carico del Vescovo se sono poveri. Se hanno dei beni, provvederanno essi stessi alloro bisogni "secondo il ben volere del Vescovo". Benché il regime normale del prigioniero fosse pane e acqua, l'Inquisizione autorizzava a ricevere alimenti, vestiti, vino e soldi: regime che funzionò a favore dei detenuti della Bastiglia fino al 1789. Sarebbe forse più esatto scrivere che c'erano certe indulgenze in materia. D'altronde questo era l'uso nelle prigioni del Re, dove il prigioniero pagava le spese del suo sostentamento al suo capocarcere. Anche su questo punto, la giustizia inquisitoriale era più umana della giustizia degli uomini. Inoltre, pare proprio che non fosse possibile corrompere le guardie.


Una fruttuosa visita alle carceri

Nell'aprile 1306, a Carcassonne, i Cardinali visitano personalmente le prigioni. Vi si trovano 40 "emmurés" (prigionieri). Essi ascoltano le loro lamentele e ordinano immediatamente di trasferirli in prigioni superiori non appena queste fossero state riattate. Essi decidono inoltre che le guardie vengano rimpiazzate (esse saranno destituite qualche giorno dopo), così come gli altri impiegati della prigione; e che tutte le provviste che vengono loro inviate vengano integralmente consegnate. Il Vescovo di Carcassonne potrà accordare loro il diritto alla passeggiata "per carrieras muri largi", cioè nei corridoi della prigione. Infine essi danno ordine di accordare ai malati e agli anziani un trattamento speciale e, in particolar modo, una prigione ("conclavia") in buono stato ("reparata").


I nuovi guardiani devono prestare giuramento.

Un mese più tardi, uno dei Cardinali visita di nuovo le prigioni. Ascolta gli "emmurés". Li osserva. Constata la loro brutta sorte. Ordina che a processo in corso ("negotio predicato pendente"), i prigionieri vengano liberati dalle loro Catene, che le prigioni ("bona et secura custodia") siano provviste di finestre ("clarificentur"), che tre o quattro celle siano costruite nel solaio e che siano migliori e più sopportabili ("'leviores") di quelle dove essi sono rinchiusi attualmente.
I nuovi guardiani, tra cui un monaco, dovranno prestare giuramento sui quattro Vangeli, giurare di osservare il segreto, dare prova di "sollecitudine" nei confronti dei prigionieri e consegnare "fideliter", e senza prendere niente, le provviste che avranno fatto consegnare il Re, il Vescovo, gli amici, i parenti o chiunque altro.
"L'anno seguente, Castanet, Vescovo di Albi, fu sospeso dal potere spirituale e da quello temporale": gli si rimproverava senz'altro di avere lasciato andare le cose troppo lontano.
Queste forme di clemenza, questa capacità di perdono, usiamo il termine: questa umanità, non corrispondono molto all'immagine che ci si è fatta comunemente dell'Inquisizione. Ciò si spiega col fatto che gli uomini del Medio Evo hanno coscienza della debolezza radicale dell'uomo e di quale sia la rude brutalità che li anima; hanno tuttavia il senso del perdono, o almeno un certo senso del perdono.

Anche i recidivi

Anche nei confronti dei recidivi, conosciamo indulgenze assai stupefacenti: in un registro di sentenze del 1246-48, si contano 60 casi di recidivi, di cui nessuno è punito con pena più severa della prigione, e tra essi, alcuni nemmeno con la prigione a vita, contrariamente alla Dottrina.
H. c, Lea si meraviglia, a più riprese (cfr. I, 612), che il recidivo venisse consegnato ai tribunali secolari, "senza nemmeno venire ascoltato di nuovo". A parte che questa affermazione non corrisponde al fatti, poiché abbiamo appena visto commutare le pene ordinarie ai recidivi, bisogna tenere conto del fatto che il recidivo aveva giurato di rinunciare ai suoi errori prima di essere rimesso in libertà. Si trovava dunque nella situazione, oggi classica, di un delinquente graziato prima di avere espiato totalmente la sua condanna, e che, recidivo, si espone a pagare integralmente la sua pena senza altre forme di processo.
Il condannato che ritrattava ai piedi del rogo e rinnegava i suoi errori, veniva riaffidato all'Inquisizione per un nuovo esame, destinato a verificare la veridicità della sua strana conversione in extremis, quando l'uomo aveva resistito a mesi di prigione, di interrogatori e di dotte discussioni.
In certi casi, la conversione era sospetta a tal punto che la condanna seguiva il suo corso: la sola differenza consisteva nel ricorso alla garrota; il cadavere veniva bruciato, per non profanare la terra cristiana. Se l'Inquisitore e il Vescovo avevano qualche motivo per credere alla sincerità del mal capitato, lo mettevano alla prova sul campo: É egli disposto a denunciare, in modo "pronto e volontario", tutti i suoi complici? E' disposto a perseguitarli "con segni, parole e azioni"? A "detestare e abiurare" i suoi passati errori? Se egli si impegnava in questo senso, "fuori da ogni costrizione", riceveva come castigo la prigione a vita.


La tortura

Se c'è un'immagine intimamente legata all'Inquisizione, è proprio la tortura. Infatti, nell'inconscio collettivo, essa riassume e simboleggia (insieme al rogo!) tutta la storia di questa istituzione. Feroce, sadica, con i suoi cavalletti, il suo supplizio della corda, la torcia infiammata e cento "modi nuovi di tortura", precisa il dotto Dictionnarie di Theologie Catholique, alla voce Inquisition, che aggiunge che "i membri del tribunale, Inquisitori e soci, non si sottraggono dall'assistere alle sedute di tortura, o di applicarla essi stessi" (il corsivo è mio)
Ci sono sadici ovunque, i sinistri Einsatzkommando nazisti comprendevano non pochi intellettuali. Il Dizionario commenta questa presenza troppo attiva: "Gli accusati non guadagneranno nulla nel cambiamento di programma". (Roma interviene allora, nel 1311, per porre un termine agli abusi di questo genere, ma non sempre con successo).
In ogni modo, qualunque sia stata la realtà, la tortura è identificata con l'Inquisizione, come se tutti i sospettati venissero d'ufficio torturati e poi condannati al rogo.
Per fortuna, non si trattò di questo.
Per cominciare, la tortura non è un'invenzione dell'Inquisizione medioevale. Nel IX secolo, Papa Nicola I aveva dichiarato che questo metodo di inchiesta "non era ammesso né dalle leggi umane né dalle leggi divine". Fu lo sviluppo del diritto romano nel XIII secolo che riportò questa pratica, all inizio nella giustizia secolare (Codice Veronese 1228; Costituzioni siciliane di Federico II, 1231), e poi nella giustizia inquisitoriale, nel Mezzogiorno della Francia, verso il 1243, Papa Innocenzo IV non ne autorizzò l'uso che nel 1252, decisione confermata in seguito dai Papi Alessandro IV (1259) e Clemente IV (1265). Fu tuttavia stabilito che la tortura dovesse sempre essere applicata senza che l'integrità fisica o la vita dell'accusato fossero messe in pericolo - "citra membri diminutionem et mortis periculum".
Nel XII e XIV secolo, i mezzi utilizzati erano quelli del cavalletto, del supplizio della corda e della torcia, o dei carboni ardenti. In seguito, la malvagità degli uomini ne inventò altri.
Si lasciavano piccole pause per permettere all'Inquisitore di fare delle domande. Il notaio annotava le risposte. Ogni seduta durava circa mezz'ora. Il notaio chiedeva al mal capitato, tempo dopo, se si ricordava di ciò che aveva detto sotto l'effetto della tortura; diceva: "Ebbene, ridillo ora in tutta libertà", e annotava la risposta. Se in quel momento il sospettato rinnegava ciò. che aveva detto sotto l'impulso della sofferenza, si doveva passare ad una nuova seduta.
Eymeric, Inquisitore catalano, stimava che ci sarebbe stato "eccesso di crudeltà" se si fosse ricominciata più di due volte la serie completa dei "tormenti".
In ogni caso, le dichiarazioni (spontanee o no) ottenute nel corso dell'inchiesta, erano considerate molto più importanti di quelle ottenute grazie alla tortura.
Gli Inquisitori erano coscienti della fragilità delle affermazioni fornite in simile modo, "quaestiones sunt fallaces et inefflcaces", scrive Eymeric.
Inoltre, come sempre accade nelle cose umane, vi furono eccessi d'ogni tipo. Al fine di sanare queste situazioni, Papa Clemente V decise (con la sua Constitutio Multorum Querela del 1311) che l'Inquisitore non poteva far sottoporre alla tortura un imputato senza l'autorizzazione del Vescovo, e viceversa. Non è sicuro che questa Costituzione sia stata osservata.
Un autore scrive: "In principio, la tortura non poteva essere impiegata che quando il soggetto aveva cambiato parere durante le sue deposizioni e quando numerosi e seri indizi autorizzavano a ritenerlo colpevole. Occorreva un inizio di prova. D'altronde,. il supplizio non era permesso che per stabilire la colpevolezza; a tal segno che, se l'Inquisitore poteva raggiungere in altro modo la prova giuridica, doveva fare a meno della tortura. Il suo dovere era di evitarla il più possibile; egli non vi si decideva che dopo aver utilizzato tutti gli altri mezzi e atteso a lungo. Solo quando fosse persuaso che il sospettato negasse sistematicamente, e in questo caso soltanto, lo avrebbe destinato al supplizio; ma, anche allora, egli doveva esortarlo fino all'ultimo minuto, cioé doveva ritardare la tortura il più possibile".
Certi accusati riuscivano ad emergere vincitori, se non indenni, da queste temibili prove (il che dimostra, almeno, che esse non raggiungevano il livello di quelle che avrebbero messo a punto i regimi nazista e comunista). Bernard Délicieux, frate minore, morto nel 1320, sottoposto tre volte alla tortura e a 26 interrogatori, vi sopravvisse. In compenso, se così si può dire, fu condannato alla perdita dei diritti civili e alla prigione perpetua, dove morì.


La pena di morte

Le folle, scatenate, passavano spesso alle vie di fatto, come abbiamo ben visto durante la Rivoluzione Francese, al tempo dei Massacri di Settembre (1792). L'Inquisizione, con le sue innumerevoli garanzie di diritto, voleva chiudere l'epoca di queste esecuzioni sommarie.
Bernard Gui ha pronunciato 42 sentenze di morte. H. C. Lea stesso scrive (t. II, p. 175): "Non vi si scorge la prova di una grande attività".
J. Marx scrive che, nel Delfinato, i roghi si sono succeduti "in continuazione". Cita 4 vittime tra il 1347 e il 1424. Poi il ritmo accelera, in questo secolo di crisi in cui l'ondata di stregoneria (Confusa ormai con l'eresia) è particolarmente potente: dal 1428 al 1447 si contano, nel Delfinato, 110 donne e 57 uomini condannati a morte per stregoneria. Non sappiamo se tutte le sentenze furono eseguite.
Dal 1240 al 1248, in Linguadoca, Bernard de Caux non ha consegnato nessun colpevole al braccio secolare, benché avesse processato 60 relapsi.
Infine, i dati statistici che noi possediamo permettono di valutare che il numero di coloro che sono stati "consegnati al braccio secolare" varia dal 5 all'8% di un numero di condannati che non superava il migliaio. E' poco se si pensa alle 72000 vittime del regno di Enrico VIII, Re d'Inghilterra, e alle 89000 vittime del regno di Elisabetta I. Nel XIX secolo le esecuzioni annuali si contano ancora per decine (ma, all'inizio del secolo, sì contano circa 7000 delitti passibili di pena di morte): da 10 a 38 durante il regno della Regina Vittoria. Il nostro secolo ha battuto tutti i record, grazie ai moderni olocausti nazista e comunista.
H. C. Lea Scrive: "Il rogo non ha fatto relativamente che poche vittime".
In realtà, l'Inquisitore si faceva un dovere d'insistere saepius, presso gli sfortunati, attendeva diutius un ravvedimento sempre possibile, se non sempre sperato, e accordava una dilazione, talvolta di 15 giorni, tra la sentenza e la consegna definitiva al braccio secolare. H. C. Lea stesso cita il caso di un prete inviato nel 1228 per braccare i Valdesi, che si lascia sedurre dal loro insegnamento, si unisce alla loro Comunità, è imprigionato, abiura, è rimesso in libertà, e raggiunge nuovamente il gruppo degli eretici. Arrestato di nuovo nel 1311, è bruciato sul rogo solo nel 1319. Erano più di 30 anni che egli era sospettato. Lo stesso supplizio è applicato, lo stesso giorno, a degli sfortunati condannati da più di 10 anni.


Il rogo

Il professore Charles Moeller, dell'Università di Lovanio, si è chiesto (1900) quale era l'origine del rogo. Egli nota, per cominciare, che la pena al rogo è stata praticata dall'anno 1000, prima che la legge si organizzasse.
La costituzione imperiale del 287 contra manichoeos la conosceva già, ma questa punizione era stata abrogata dagli Imperatori cristiani, in particolare dal codice teodosiano.
Il primo testo legislativo medioevale in cui il rogo è enumerato bome pena di morte è, nel 1224, la costituzione di Federico II (1194-1250), l'Anticristo, secondo il Papa Onorio III (1227). Sempre lui lascia al suo legato, il terribile Alberto di Magdeburgo, la scelta tra rogo e ... il taglio della lingua, supplizio classico nel Medio Evo per i maldicenti. Strana misura da parte di un uomo per nulla cattolico ortodosso, ma che forse era destinata ad attirare le simpatie del suo popolo. E, dopo attento esame, Charles Moeller tende verso questa spiegazione, seguendo in questo H. C. Lea: non è la legge che ha inaugurato questo genere di supplizio. "Il legislatore non ha fatto altro che adottare una forma di vendetta di cui sì compiaceva naturalmente la ferocia popolare in quest'epoca". Sarebbe più giusto dire: in tutte le epoche.
Dal martirio dei cristiani sotto Nerone e Diocleziano, al linciaggi, cari agli stati del sud degli Stati Uniti, dagli orrori commessi dalla folla il giorno di San Bartolomeo (24 agosto 1572), a quelli perpetrati nei confronti della principessa di Lamballe, nel 1792, o dei federati della Comune (maggio 1871).
I roghi d'Orleans (1017) vengono accesi "consensu populi"; altri "in conspectu populi" o "consensu cunctorum". Anche se formule di questo tipo sono assai spesso tradizionali, obbligatorie, non di meno corrispondono a ciò che sappiamo delle reazioni e dei gusti popolari. In Francia, le esecuzioni con la ghigliottina hanno cessato di essere pubbliche a causa del comportamento scandaloso della folla accorsa per assistere al supplizio, ed essa era lungi dall'essere popolare o plebea.
L'immagine sinistra del rogo è impressa in tutte le memorie. Nel Delfinato si rinchiudeva il condannato in una piccola capanna di legno costruita per la circostanza. Alcuni condannati sono stati anche impiccati o annegati (era una grazia). Le esecuzioni venivano fatte normalmente in pubblico, con uno scopo nettamente pedagogico (e poi le folle amano ciò: se si organizzassero, oggigiorno, combattimenti di gladiatori, gli spalti degli stadi sarebbero stracolmi). Tuttavia, su richiesta delle famiglie, esse potevano svolgersi in segreto. Terirninata l'esecuzione, il castellano offriva un pranzo al carnefice e ai suoi aiutanti.


Il leggendario auto-da-fe'

"Roghi e auto-da-fé si escludono", scrive lo storico Charles Moeller. La diversità dei tempi, di luoghi e di persone, è totale.
L'auto-da-fé (gli Spagnoli dicevano "auto de la fé, "autodafè" è l'espressione portoghese), atto solenne di riconciliazione degli eretici pentiti con la fede, aveva luogo la domenica, o un giorno di festa, in presenza dei fedeli riuniti in una piazza pubblica, o nella chiesa principale, comunque all'interno della città, in presenza delle autorità ecclesiastiche, le sole in scena in questi casi. Le autorità civili erano presenti solo come spettatori, così come gli altri fedeli. Niente a che vedere, dunque, con il rogo.
Esso invece non può essere eretto che nel corso della settimana (o la domenica, dopo mezzanotte). La cerimonia - il quemadero - ha luogo fuori dalla città per non contaminarla, e vi prendono parte attivamente le sole autorità civili. Ma dei confessori accompagnano gli sfortunati sino al piedi del rogo, nella speranza di strappare le loro anime al fuoco dell'inferno.
P. Fredéricq ci ha lasciato la descrizione di un autodafè che ebbe luogo nel 1458 ad Harlem (la città natale del pittore Frans Hals). "Un sarto di nome Edon, un po' letterato, che leggeva la Bibbia solo in lingua volgare e la capiva male, si mise a propagare diversi errori concernenti la Vergine, il culto dei santi e i sacramenti. Poiché egli era eloquente e di costumi austeri, sì fece dei discepoli, tra cui anche un prete e il il maestro d'arte Nicolas di Naarden. Segnalati al vescovo di Utrecht, entrambi vennero arrestati, esaminati da un Domenicano dottore in teologia e invitati a ritrattare, cosa che essi fecero senza difficoltà. La riconciliazione solenne ebbe luogo la quarta domenica dopo Pasqua sulla piazza del Sabbione di Harlem, in presenza della popolazione convocata dalla grossa campana della città. Era stato eretto un palco di legno, con tre gradini, da cui erano visibili al pubblico: nel gradino superiore, Edon e il suo discepolo; ai piedi del pulpito dell'Inquisitore, e sui seggi della galleria inferiore, il vicario generale e il vescovo ausiliario di Utrecht, con il clero secolare e regolare; infine, di fronte, le autorità civili, tutte pronte a portare sul rogo gli accusati, in caso di ostinazione. Dopo il sermone sulla fede fatto dal Domenicano, che non durò meno di due ore - questo era l'auto propriamente detto - egli rilesse e confutò una dopo l'altra le loro confessioni, chiedendo ad ogni momento: "l'hai detto?" - "lo revochi?". Sulla base delle loro risposte affermative essi furono assolti, ma non senza subire una penitenza: per Edon, divieto sotto pena di morte, di predicare e di abbandonare la città per tutta la vita; per un anno, obbligo di assistere alla messa e alla processione della domenica, con un cero in mano e con l'abito di penitenza: tunica grigia, con scapolare blu e una croce gialla; per il prete Nicolas, sospensione a divinis per un certo tempo e recita di numerosi salteri". Tutto questo non era male, e testimoniava piuttosto una preoccupazione pedagogica che un diritto penale, fosse anche inquisitoriale.
La sentenza, una volta decretata, doveva essere resa pubblica. Il più delle volte, questa cerimonia veniva celebrata con grande pompa, una domenica, di buon mattino. Cominciando con un sermone appropriato, essa proclamava le indulgenze pontificie per tutti gli astanti (anche le confraternite si affrettavano ad assistere allo spettacolo), annunciava le grazie accordate e le variazioni di pena, finiva con le punizioni più terribili.
I condannati, in ginocchio, abiuravano i loro errori, la mano sui Vangeli, cantavano i salmi penitenziali e recitavano le preghiere. In seguito veniva tolta la sentenza di scomunica che li aveva colpiti.
Un certo numero di parenti, amici e compatrioti, erano invitati per servire da testimoni al castigo e al pentimento, ed anche per imparare a fuggire accuratamente l'errore sotto tutte le sue forme. Pedagogia rude, senza dubbio, ma che non fu sufficiente sempre a fermare la diffusione della "pravitas heretica".


Non c'erano né roghi, né carnefici, né esecuzioni.

Secondo il parere degli specialisti, gli "auto-da-fé" furono relativamente poco frequenti, e il numero delle vittime date alle fiamme - forse varie migliaia - non rappresenta che una debole proporzione rispetto a quelle che ebbero a che fare con il Tribunale. Ma, ad ogni modo, il fatto di essere sottoposti a questo tipo di inchiesta, pesava sull'individuo e la sua famiglia.


La lotta contro la stregoneria

La stregoneria era perseguitata sia dal potere religioso che da quello secolare. Il giudice aveva il diritto di perseguitare (e di infierire), anche in caso di assoluzione da parte dell'Inquisitore: siccome il delitto di stregoneria poteva essere di competenza anche del diritto comune, il giudice aveva il dovere di difendere "pro jure et interesse totius rei publicae". Egli riprendeva, di sua iniziativa, i capi di accusa che erano stati eventualmente presentati dall 'Inquisizione, e vi aggiungeva i propri. Ecco come andarono le cose nel caso di un certo Thomas Bégue. I primi quattro capi d'accusa attengono alla sfera religiosa. Eccoli: "1° Bégue è entrato in rapporto con il diavolo (è probabile che il malcapitato lo credesse lui stesso). 2° Ha rinnegato Dio e calpestato la croce. 3° Ha ascoltato le promesse del diavolo. 4° Il diavolo gli ha proibito di baciare la croce. Dopo questi vengono i capi d'accusa che incontriamo solo nel processo secolare. 5° Ha prodotto polveri magiche. 6° Ha fatto uso criminale di tali polveri. 7° Ha commesso malefici e assassinato bambini. 8° E' andato al Sabba. 9° Ha gettato sortilegio sul latte delle mucche. 10° Ha fatto morire un bambino, 11° Ha fatto abortire una vacca. 12° Ha operato numerosi avvelenamenti. 13° E' stato complice di altri avvelenamenti. 14° Ha commesso altri omicidi. 15° Ha partecipato ad altri omicidi", La sentenza secolare lo condanna come omicida e avvelenatore, ma anche come maligno, apostata, indovino, invocatore di demoni e "feyturier" (vale a dire "contumace").
Nel XV secolo, molti processi per stregoneria sono stati condotti senza traccia di intervento da parte dell'Inquisizione. La Chiesa era, in tale materia, un po' più scettica di quanto non lo fosse la giustizia degli uomini.


Riflessioni finali

Per riassumere ciò che è stato detto sull'Inquisizione Medioevale, mi sembra possibile farlo nel modo seguente:

1) L'Inquisizione ha sempre agito secondo le regole del diritto. Il suo operato non è mai stato arbitrario, né avrebbe potuto esserlo.

2) L'Inquisizione, prima di tutto, è un organismo di controllo delle anime, di "conversio morum", di pedagogia, di "riconversione", piuttosto che uno strumento di repressione.

3) L'inquisizione, molto spesso, ha avuto a che fare con gruppi di "devianti" antisociali, assal più che con individui che rivendicavano la libertà di coscienza cristiana.

4) L'Inquisizione ha avuto a disposizione una gamma molto varia ed estesa di penitenze, che andavano dalle più leggere alle più severe. Queste ultime sono state, proporzionalmente, utilizzate raramente.

5) L'Inquisizione, in ragione della sua propria natura e degli obiettivi che le erano stati assegnati, ha largamente applicato un sistema di perdono, di remissione e di modifica delle pene.
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Messaggioda Generale Specifico » dom gen 06, 2008 10:26 pm

Grazie per postato questo studio. E' estremamente interessante e fa davvero piazza pulita di molti luoghi comuni sull'Inquisizione.
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Messaggioda GrisAdmi » dom gen 06, 2008 10:28 pm

Nei prossimi giorni provvederò a correggere gli errori di battitura ed a inserire i corsivi che sono andati perduti nel copia/incolla.
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Visto che lo rivedi si potrebbe fare qualche utile premessa

Messaggioda Sandro » mar gen 08, 2008 3:25 pm

Ad esempio, perché non indicare all'inizio anche tutte le altre coordinate del libro? Editore, città, anno, e i numeri di pagina?

Se poi ci aggiungi che anche se non hai messo le virgolette riporti il testo di peso, è ancora meglio.

Questo lo dico anche per chi volesse dare contributi analoghi: si distingua sempre chiaramente e subito la parte che è contributo personale da quella che è stampata e pubblica. La correttezza della documentazione lo esige.

E' molto spiacevole leggere un testo interessante e non poterlo utilizzare perché non si sa a chi attribuirlo con esattezza, ed è anche rischioso qualora si tratti di una testo stampato di cui non si riportano appunto gli estremi esatti del luogo. Dire il capitolo non basta.
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Messaggioda GrisAdmi » mar gen 08, 2008 10:57 pm

Ecco le coordinate dello studio che ho qui riportato

Leo Moulin (1906-1996), L'Inquisizione sotto inquisizione, trad. it., a cura dell'Associazione Culturale ICARO, Cagliari 1992;

Qui ho incollato l'edizione elettronica del medesimo repereribile qui:

http://it.geocities.com/apologeticando/inquisizione.htm
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