IL PRESEPE: un teatro umano e divino. -Avvenire 13/12/2009.

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IL PRESEPE: un teatro umano e divino. -Avvenire 13/12/2009.

Messaggioda Leonardo » lun dic 14, 2009 1:32 pm

LA TRADIZIONE
Presepe: un teatro umano e divino

Le nostre tradizioni più forti sono quelle che hanno le radici più solide e talvolta pure complesse. Quando si pensa al presepe della Natività viene quasi automatico tornare alla tradizione dei grandi presepi napoletani del XVIII secolo che hanno visto un moltiplicarsi infinito di personaggi e di folklore attorno alla grotta. Forse il più teatrale di tutti è quello della reggia di Caserta, al quale contribuirono tutti i monarchi borbonici da Carlo III in avanti.

È tuttora una delle attrazioni più curiose del luogo e rappresenta tutta la vita contadina napoletana tra Sette e Ottocento, con una esaltazione particolare per le innovazioni alimentari avvenute sotto il regno di Ferdinando IV quando i dettami della fisiocrazia illuminata stavano trasformando le campagne. Vi appaiono le prime bufale allevate regolarmente e la loro naturale conseguenza di mozzarelle e provole, tutti i legumi vecchi e nuovi e un primo contadino redento che affonda una forchetta in un piatto di spaghetti con la pommarola appena scoperta.

Probabilmente la gente povera non usava affatto la forchetta. Si tratta quindi d’un auspicio didattico realizzato dalle abili mani degli artisti e delle dame di corte che s’impegnavano con sommo divertimento ad organizzare il complesso teatro plastico. Il che riporta il presepe stesso alla invenzione teatrale vera e propria di san Francesco, quando prese la gente comune di Greccio vicino a Rieti e la coinvolse in una recita che celebrava la notte di Betlemme. Correva l’anno 1223 e papa Onorio III aveva autorizzato l’evento. È sempre bene ricordare che Francesco era per metà francese meridionale occitano (donde il suo nome!) e come tale educato nella cultura fine della prima poesia cortese. Dava egli rilievo ad una tradizione già ben ancorata che trova i suoi primi esempi in alcune sculture oggi conservate nel Museo Bizantino e Cristiano di Atene, fra le quali si scorge un buon pastore di derivazione apollinea, con pecorella a tracolla, e una rappresentazione d’una greppia con bue e asinello, ma senza i personaggi della Madonna e di Giuseppe.

I testi sacri dei Vangeli appena resi canonici a Nicea (Luca 2, 7) avevano prodotto le prime rappresentazioni visive. Ed è curioso in quanto Luca era il greco per eccellenza fra gli evangelisti, non aveva conosciuto Gesù di persona perché troppo giovane; e si dice pure che fosse, oltre che medico, pittore.

È però nel mescolare questa tradizione d’oriente, greco-alessandrina come sono greche le parole fondamentali della cristianità, con Roma che nacque il presepe vero e proprio, ivi compresa la parola che deriva dal latino prae saepes, cioè il luogo dinnanzi al recinto dove si tenevano le greggi. Nella tradizione pagana romana si celebrava una festa di famiglia, sin dalla più profonda antichità, quando i bimbi lucidavano le statuette dei lares familiares, gli antenati protettori, per porle in una nicchia domestica dove venivano addobbate con decori di natura, fra i quali potevano apparire anche altri personaggi confezionati appositamente e illuminati da piccoli lumi ad olio. In quell’occasione ci si scambiavano piccoli doni.

La festa di chiamava sigillaria e avveniva circa il 20 dicembre. La genialità della prima cristianità, finalmente ammessa dall’impero, fu esattamente quella di sovrapporre alle tradizioni passate la nuova tradizione nascente. In questo senso saranno poi esemplari i dipinti del Rinascimento quattrocentesco, quando andranno a raffigurare la Sacra Famiglia sotto le rovine degli archi romani antichi. Nel frattempo le recite di Francesco avevano preso la piega fantasiosa del Medioevo finale e la Controriforma si trovò nell’obbligo di ridare alla celebrazione una forma più contenuta. Francesco Brandani prende la palla al balzo e realizza immediatamente il teatro scultoreo d’un presepe ad Urbino, semplice e povero, in stucco, dove i personaggi sono quasi in grandezza naturale.

Andrà a generare una versione per così dire «di canone» che avrà gran successo, se lo stesso cardinale Federico Borromeo – il sostenitore più convinto d’una arte nuova, il promotore del Sacro Monte di Varese e della sua statuaria – insisterà presso il pittore urbinate Federico Barocci, influenzato ovviamente dal presepe della sua città, per farsi fare una copia ambrosiana del presepe oggi conservato al Prado. Se lo mise in collezione, il cardinale, accanto alla visita dei Magi di Tiziano. La tradizione continuava ad arricchirsi.
Philippe Daverio
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Re: IL PRESEPE: un teatro umano e divino. -Avvenire 13/12/2009.

Messaggioda Leonardo » dom dic 27, 2009 10:26 pm

La storia conferma la nascita di Gesù il 25 dicembre - Zenit 21/12/2009

di Michele Loconsole*


ROMA, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Molti si interrogano se Gesù sia nato veramente il 25 dicembre. Ma cosa sappiamo in realtà sulla storicità della sua data di nascita? I Vangeli, come è noto, non precisano in che giorno è nato il fondatore del cristianesimo.

E allora, come mai la Chiesa ha fissato proprio al 25 dicembre il suo Natale? È vero, inoltre, che questa festa cristiana - seconda solo alla Pasqua - è stata posta al 25 dicembre per sostituire il culto pagano del dio Sole, celebrato in tutto il Mediterraneo anche prima della nascita di Gesù?

Cominciamo col dire che il solstizio d’inverno – data in cui si festeggiava nelle culture politeiste il Sol Invictus - cade il 21 dicembre e non il 25.

In secondo luogo è bene precisare che la Chiesa primitiva, soprattutto d’Oriente, aveva fissato la data di nascita di Gesù al 25 dicembre già nei primissimi anni successivi alla sua morte.

Dato che è stato ricavato dallo studio della primitiva tradizione di matrice giudeo-cristiana - risultata fedelissima al vaglio degli storici contemporanei - e che ha avuto origine dalla cerchia dei familiari di Gesù, ossia dalla originaria Chiesa di Gerusalemme e di Palestina.

E allora, se la Chiesa ha subito fissato al 25 dicembre la nascita di Gesù, abbiamo oggi prove documentali e archeologiche che possono confermare la veneranda tradizione ecclesiale? La risposta è si.

Nel 1947 un pastorello palestinese trova casualmente una giara, semisepolta in una grotta del deserto di Qumran, un’arida regione a pochi chilometri da Gerusalemme. La località era stata sede della comunità monastica degli esseni, che oltre all’ascetismo praticava la copiatura dei testi sacri appartenuti ai loro antenati israeliti. I monaci del Mar Morto produssero in pochi decenni una grande quantità di testi, poi nascosti in grandi anfore per salvarli dall’occupazione romana del 70 d.C.

All’indomani della fortunata scoperta, archeologi di tutto il mondo avviarono una grande campagna di scavi nell’intera zona desertica, rinvenendo ben 11 grotte, che custodivano, da quasi venti secoli, numerosi vasi e migliaia di manoscritti delle Sacre Scritture israelitiche, arrotolati e ben conservati.

Tra questi importanti documenti, uno ci interessa particolarmente: è il Libro dei Giubilei, un testo del II secolo a.C.

La fonte giudaica ci ha permesso di conoscere, dopo quasi due millenni, le date in cui le classi sacerdotali di Israele officiavano al Tempio di Gerusalemme, ciclicamente da sabato a sabato, quindi sempre nello stesso periodo dell’anno.

Il testo in questione riferisce poi che la classe di Abia, l’VIII delle ventiquattro che ruotavano all’officiatura del Tempio - classe sacerdotale cui apparteneva il sacerdote Zaccaria, il padre di Giovanni Battista - entrava nel Tempio nella settimana compresa tra il 23 e il 30 settembre.

La notizia apparentemente secondaria si è rivelata invece una vera bomba per gli studiosi del cristianesimo antico. Infatti, se Zaccaria è entrato nel Tempio il 23 settembre, giorno in cui secondo il vangelo di Luca ha ricevuto l’annuncio dell’Arcangelo Gabriele, che gli ha comunicato - nonostante la sua vecchia età e la sterilità della moglie Elisabetta - che avrebbe avuto un figlio, il cui nome sarebbe stato Giovanni, questo vuol dire che il Precursore del Signore potrebbe essere nato intorno al 24 giugno, nove mesi circa dopo l’Annuncio dell’angelo.

Guarda caso gli stessi giorni in cui la Chiesa commemora nel calendario liturgico, già dal I secolo, sia il giorno dell’Annunciazione a Zaccaria che la nascita di Giovanni.

Detto ciò, Maria potrebbe avere avuto la visita, sempre di Gabriele, giorno dell’Annunciazione, proprio il 25 marzo. Infatti, quando Maria si reca da sua cugina Elisabetta, subito dopo le parole dell’Arcangelo, per comunicare la notizia del concepimento di Gesù, l’evangelista annota: “Elisabetta era al sesto mese di gravidanza”.

Passo evangelico che mette in evidenza la differenza di sei mesi tra Giovanni e Gesù. E allora, se Gesù è stato concepito il 25 marzo, la sua nascita può essere ragionevolmente commemorata il 25 dicembre, giorno più, giorno meno.

Se così stanno i fatti - e la fonte qumranica li documenta - possiamo affermare senza tema di smentita che grazie alla scoperta della prezioso testo, avvenuto appena sessant’anni fa, la plurimillenatria tradizione ecclesiastica è confermata: le ricorrenze liturgiche dei concepimenti e dei giorni di nascita, sia di Giovanni che soprattutto di Gesù, si sono rivelati pertanto compatibili con la scoperta archeologica del Deserto di Giuda.

Cosa sarebbe accaduto se, per esempio, avessimo scoperto che il sacerdote Zaccaria fosse entrato nel Tempio nel mese di marzo o di luglio? Tutte le date liturgiche che ricordano i principali avvenimenti dei due personaggi evangelici sopra citati sarebbero diverse da quelle indicate dalla tradizione ecclesiale. E subito gli scettici, strappandosi le vesti, avrebbero gridato al mondo intero che la Chiesa si è inventata tutto, compreso la data di nascita del suo fondatore.

Ma l’indagine non è ancora terminata! Alcuni detrattori della storicità della data del Natale al 25 dicembre hanno, infatti, osservato che in quel mese - cioè in pieno inverno - gli angeli non potevano incontrare in aperta campagna e di notte greggi e pastori a cui dare la lieta notizia della nascita del Salvatore dell’umanità.

Eppure, quanti sostengono questa ipotesi dovrebbe sapere che nell’ebraismo tutto è soggetto alle norme di purità. Secondo non pochi antichi trattati ebraici, i giudei distinguono tre tipi di greggi.

Il primo, composto da sole pecore dalla lana bianca: considerate pure, possono rientrare, dopo i pascoli, nell’ovile del centro abitato. Un secondo gruppo è, invece, formato da pecore la cui lana è in parte bianca, in parte nera: questi ovini possono entrare a sera nell’ovile, ma il luogo del ricovero deve essere obbligatoriamente al di fuori del centro abitato.

Un terzo gruppo, infine, è formato da pecore la cui lana è nera: questi animali, ritenuti impuri, non possono entrare né in città né nell’ovile, neppure dopo il tramonto, quindi costretti a permanere all’aperto con i loro pastori sempre, giorno e notte, inverno e estate.

Non dimentichiamo, poi, che il testo evangelico riferisce che i pastori facevano turni di guardia: fatto che appare comprensibile solo se la notte è lunga e fredda, proprio come quelle d’inverno. Ricordo che Betlemme è ubicata a 800 metri sul livello del mare.

Alla luce di queste considerazioni, possiamo ritenere risolto il mistero: i pastori e le greggi incontrati dagli angeli in quella santa notte a Betlemme appartengono al terzo gruppo, formato da sole pecore nere. Prefigurazione, se vogliamo, di quella parte della società, composta da emarginati, esclusi, derelitti e peccatori che tanto piacerà avvicinare al Gesù predicatore.

In conclusione, possiamo dunque affermare non solo che Gesù è nato proprio il 25 dicembre ma che i vangeli dicono la verità storica circa i fatti accaduti nella notte più santa di tutti i tempi: coloriamo di nero le bianche pecorelle dei nostri presepi e saremo più fedeli non solo alla storia quanto al cuore dell’insegnamento del Nazareno.
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* Il prof. Michele Loconsole è dottore in Sacra Teologia ecumenica, Presidente dell’associazione internazionale ENEC (L’EUROPE – NEAR EAST CENTRE) e Vicepresidente della Fondazione Nikolaos e dell’Associazione Puglia d'Oriente. Ha pubblicato recentemente il volume “Il simbolo della croce. Storia e liturgia” (Bari 2009).
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Re: IL PRESEPE: un teatro umano e divino. -Avvenire 13/12/2009.

Messaggioda Leonardo » dom dic 27, 2009 10:32 pm

Così San Francesco inventò il presepe - Zenit 21/12/2009
di Renzo Allegri


ROMA, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Il simbolo più popolare del Natale è il presepe, cioè quella rappresentazione visiva di quanto si legge nel Vangelo di San Luca al capitolo secondo: la nascita di Gesù che “viene adagiato in una mangiatoia perché non vi era posto per loro nell’albergo”, ma gli angeli trasformano la notte in una festa meravigliosa, invitando i pastori a rendere omaggio a quel bambino.

In questi giorni, il presepe è presente in milioni e milioni di famiglie in tutto il mondo, non solo cattoliche. Si tratta di una tradizione che affonda le sue radici in uno specifico fatto storico della vita di San Francesco. Fu lui, il poverello d’Assisi, a dar vita per la prima volta a un presepe, e lo fece a Greccio, in Umbria, il 25 dicembre 1223.

Ne abbiamo parlato con un frate francescano, che si chiama Padre Francesco Rossi e che per vent’anni è vissuto a Greccio, addetto ad accompagnare i pellegrini sul luogo dove avvenne il primo presepe e spiegare loro la storia e quali significati profondi volle dare ad essa il Santo di Assisi.

"Nel 1220", ci ha detto Padre Rossi "Francesco era riuscito a realizzare un grande desiderio, andare a visitare i luoghi della vita terrena di Gesù. Fu anche a Betlemme e si fermò a lungo a pregare e meditare sul luogo dove il Salvatore nacque. Tornato in Italia, continuava a ripensare a quel viaggio. E la sua mente era affascinata soprattutto dall’evento della nascita di Gesù. Dio che si fa uomo. Dio che diventa bambino, umile, fragile, indigente. Francesco si commuoveva fino a piangere facendo queste considerazioni. E nel Natale del 1223, decise di organizzare una 'rappresentazione viva' della nascita di Gesù, convinto che, potendo 'vedere' con i suoi occhi, avrebbe avuto modo di comprendere ancora più a fondo.

Perché scelse Greccio per quella rappresentazione e non Assisi, sua città natale, dove abitualmente viveva?

Padre Francesco Rossi: Probabilmente perché Greccio gli richiamava alla mente il paesaggio di Betlemme, che aveva visitato tre anni prima. Conosceva Greccio. La sua prima visita a quei luoghi risale al 1208. Allora si era stabilito, con alcuni suoi compagni, sulla montagna. Ma in seguito, gli abitanti che stavano giù a valle lo pregarono di andare a vivere vicino a loro. E Francesco scese dalla montagna e si stabilì in alcune grotte nei pressi del borgo. Greccio era un piccolo agglomerato di povere abitazioni intorno al castello. Forse contava un centinaio circa di abitanti. La zona era paludosa, malsana, e anche per questo poco abitata. Ma aveva quell’aspetto di povertà assoluta, di silenzio, di sofferenza anche fisica della natura, che a Francesco piacevano, perché lo aiutavano a meditare, a sentirsi umile, povero. Tornando dai suoi viaggi in giro per l’Italia, amava sostare a Greccio. E quando pensò di “rivivere” la nascita di Gesù, volle che questo avvenisse a Greccio.

Ci sono documenti storici di quell’evento?

Padre Francesco Rossi: I primi biografi, contemporanei a Francesco, quindi testimoni diretti, in particolare Tommaso da Celano e San Bonaventura, ne fanno un resoconto dettagliato.

Tommaso da Celano, nella sua “Vita prima di San Francesco d’Assisi”, al capitolo XXX, dedicato appunto al racconto del Presepio di Greccio, dice che il Santo pensava continuamente alla vita di Gesù e soprattutto “all'umiltà dell'Incarnazione e alla carità della Passione”. Cioè, ai due aspetti più umani e anche più sconvolgenti della vita terrena del Cristo.

Francesco ha fama, tra la gente, di essere un santo romantico, un poeta, l’autore del “Cantico delle creature”, l’amante degli animali, della natura, insomma un santo in un certo senso un po’ astratto, immerso in una realtà mistica lontana dalla concretezza della vita. Immagine completamente sbagliata.

San Francesco era sì un tipo romantico, un vero poeta e un autentico mistico, ma con una “concretezza” granitica. La sua imitazione del Cristo era “alla lettera”, senza sbavature. Gesù ha insegnato che siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre e che egli si nasconde nei più miseri, negli ammalati, nei carcerati. E Francesco, per “vivere” alla lettera questo insegnamento, andava a visitare i carcerati, abbracciava e serviva i lebbrosi. Gesù era povero, non aveva niente, e Francesco, che apparteneva a una famiglia ricca, volle rinunciare a tutto, perfino ai vestiti che indossava. L’Incarnazione, la nascita e la morte di Gesù erano, come scrisse il Celano, argomenti fissi delle meditazioni di Francesco voleva assimilarne il significato più profondo, immedesimandosi in essi fino a “viverli”. E per riuscire in questo, si ritirava sui monti, in luoghi deserti, in modo che la sua meditazione fosse profonda. Nel 1223 era tutto concentrato sulla nascita di Gesù e volle celebrare il Natale di quell’anno con una “rappresentazione realistica” di quell’evento. L’anno successivo, 1224, andrà sul monte Verna per meditare sulla passione e morte di Gesù e avrà l’impressione delle stigmate di Cristo sul proprio corpo.

Come si svolse quella “rappresentazione” del Natale?

Padre Francesco Rossi: Francesco la preparò con meticolosità. Chiese aiuto a un amico, un certo Giovanni da Greccio, signore della zona, che il santo stimava molto perché, come scrive il Celano, “pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne”. All’amico disse di voler organizzare, per la notte di Natale, una “rappresentazione” della nascita di Gesù. Non, però, uno “spettacolo” da far vedere ai curiosi. Ma una “ricostruzione visiva e vera”. Tommaso da Celano riporta le parole esatte che Francesco disse a Giovanni: “Vorrei rappresentare il bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia, e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Francesco aborriva lo spettacolo. Lo riteneva irrispettoso nei confronti del grande mistero religioso. E temeva che la sua iniziativa venisse male interpretata. Per questo, come informa San Bonaventura, (anche lui contemporaneo di Francesco e quindi testimone diretto), prima di mettere in atto quel suo progetto chiese il permesso al Papa.

Cosa accadde nel corso di quella notte?

Padre Francesco Rossi: Giovanni di Greccio organizzò ogni cosa come Francesco aveva chiesto. La notizia era stata diffusa e la gente del luogo si radunò presso la grotta dove Francesco e i frati andavano a pregare. Arrivarono pellegrini anche da altri borghi. Scrisse il Celano: “Arrivarono uomini, donne festanti, portando ciascuno, secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte”.

Alla fine arrivò anche Francesco e, vedendo che tutto era predisposto secondo il suo desiderio, era raggiante di letizia. Il Celano precisa che, a quel punto, “si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello”. Da questa annotazione si comprende chiaramente che Francesco vuole ricostruire la scena della nascita di Gesù, ma non vuole dare spettacolo. Infatti, nessuno dei presenti prende il posto della Madonna, di San Giuseppe, del bambino. Se così si fosse fatto, sarebbe stato spettacolo. No, Francesco vuole vedere la scena reale su cui pensare e riflettere nel corso della Messa che sarebbe stata celebrata, perché la Messa avrebbe richiamato la presenza reale di Gesù in quel luogo.

E’ questo un dettaglio importantissimo. La liturgia eucaristica richiama sull’altare la presenza “vera, reale e sostanziale” di Gesù. Francesco voleva rivivere la nascita di Gesù in forma reale nel contesto della Messa. Quando parlava dei sacerdoti, li paragonava alla Vergine Maria, perché nella Messa i sacerdoti fanno rinascere sull’altare Gesù. E diceva anche che i fedeli, quando fanno la Comunione, sono come Maria che ha portato Gesù dentro di sé. Quindi, la Liturgia eucaristica di quella notte di Natale avrebbe portato Gesù in quel luogo allestito come la capanna di Betlemme.

Francesco era diacono: partecipò alla Messa?

Padre Francesco Rossi: Certamente. Indossò i paramenti solenni e lesse il Vangelo, tenendo poi una predica. Il Celano dice che quando pronunciava le parole “Bambino di Betlemme” la sua voce tremava di tenerezza e di commozione. Il Celano aggiunge che, nel corso della celebrazione eucaristica, si manifestarono “in abbondanza i doni dell’Onnipotente”, cioè fatti prodigiosi. E riporta la testimonianza, che viene riferita anche da San Bonaventura, di ciò che vide Giovanni da Greccio. “Egli affermò”, scrisse San Bonaventura “di aver veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo fanciullo addormentato, che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno”. E una chiara indicazione di ciò che potrebbe essere accaduto e che la tradizione ha sempre tramandato: Gesù si fece realmente vivo “apparendo” nelle sembianze di un bambino sul fieno di quella mangiatoia.
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Re: IL PRESEPE: un teatro umano e divino. -Avvenire 13/12/2009.

Messaggioda Leonardo » dom gen 03, 2010 5:04 pm

Il direttore risponde
Il Natale dà speranza: a noi farla germogliare - Avvenire 18/12/2009

Caro Direttore,
oramai sembra ci si interessi soltanto di ciò che ci riguarda direttamente, senza curarsi di ciò che, invece, sta vivendo il nostro vicino di casa, il compagno di nostro figlio, il fratello del nostro collega di lavoro. La nostra vita, con tutte le sue difficoltà, gli alti e bassi, i problemi, ci dà già abbastanza pensieri. Tutti presi dalla cura del proprio orticello, si finisce per vivere chiusi in un piccolo mondo, fidando che niente turbi la nostra quiete finché la «fortuna» ci aiuterà a stare in salute, finché il «destino» ci sarà propizio. E allora diventa facile rispondere a chi è in difficoltà: «Sono problemi tuoi», certi che noi non ci troveremo in quelle condizioni, perché siamo bravi, onesti, «non facciamo nulla di male»... però poi, magari, abbiamo l’amico che ci scarica abusivamente il cd del nostro cantante preferito, quello che ci vende abbigliamento firmato senza avere la licenza, o magari, noi stessi, professionisti, non rilasciamo fattura al nostro cliente o paziente, salvo, poi, lamentarci che in Italia tutto va male perché la legge non viene rispettata. La coscienza, non correttamente alimentata, avalla l’alibi che se le cose non vanno bene è per colpa di quello e di quell’altro, e via con la caccia alle streghe! E le carceri italiane? Ma sono una cuccagna: hai un posto dove dormire, da mangiare a pranzo e cena... altro che! La palla al piede ci vorrebbe invece! Assassini, ladri, violentatori, spacciatori, in galera ci dovrebbero restare a vita! Dopo, sentiamo al telegiornale notizie raccapriccianti che alimentano rabbia nei confronti di chi ha infierito su innocenti inermi... li si vorrebbe vedere puniti, per un senso di giustizia... o di vendetta? Tutti sentimenti assolutamente umani, che è naturale provare. Ma perché tanta rabbia? Perché si vorrebbero carceri più dure e non invece carceri più «rieducative»? Si può forse sostituire l’incertezza della pena con un irrigidimento di una già dura realtà da affrontare per chi vi entra? In una società dove a livello educativo si è eliminato il castigo e la punizione per un figlio – bambino o adolescente che sia – che si comporta male in famiglia o verso gli altri, con la giustificazione che «è solo un ragazzo» (salvo poi giudicare male i figli degli altri che si comportano male verso i nostri), come mai si rivaluta lo strumento punitivo quando si parla di carcere? Siamo sempre pronti a scagliare pietre contro chi sbaglia, ma evitiamo accuratamente di fare il punto sul nostro comportamento, su quello dei nostri figli. Anzi, insegniamo addirittura ad offendere, a sentirsi superiori, a non chiedere scusa, considerandolo segno di debolezza. Abbiamo sempre una parola da spendere sugli altri; sappiamo fare molto bene i conti nelle tasche altrui, e non sappiamo più cosa significhi mettersi in ascolto, rivedere i nostri atteggiamenti, il nostro stile di vita. Crediamo di pensare con la nostra testa, e non ci accorgiamo di fare il gioco di altri; che abbiamo sintonizzato i nostri valori su quelli di un fantomatico «grande fratello» che ci vuole tutti omologati.

Carlo Silvano, Villorba (Tv)



Lei, caro Silvano, tratteggia i connotati di un «piccolo mondo moderno» privo di slanci, chiuso nelle proprie sicurezze peraltro fragili e precarie, gretto ed egoista. Un quadro grigio dal quale non emerge alcuna nota colorata, neanche un barlume di speranza. Ma questo non posso concederglielo. Tutto vero quello che dice, ma non è comunque «tutto» così. La miseria morale c’è, come c’è la corsa al tornaconto personale disposto perfino a calpestare chi è di ostacolo, ma «la foresta che cresce» del bene non è un artificio retorico; è anch’essa una realtà che di sviluppa grazie all’opera di quelle persone – uomini, donne, giovani, ragazzi, laici e religiosi... – che non si rassegnano e che vogliono per la propria vita traguardi meno asfittici di un’auto nuova, un capo griffato, una tariffa più conveniente per gli Sms... Tra queste persone, sono tante quelle che stanno preparando il proprio cuore a riascoltare l’annuncio del profeta: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia.» (Is 9,1s). Il Natale, nel suo senso autentico, è l’antidoto più efficace alla deriva che lei lamenta. Ci viene offerto ogni anno, sta a noi non sprecarlo.
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