UN GESTO PER LA FESTA ODIERNA NEL SEGNO DELLA RECIPROCITÀ
PAOLA RICCI SINDONI
Fra le tante parole malate, sparse sul terreno fragile e nebuloso della retorica politica, delle ideologie dominanti, delle manie consumistiche, spicca, con il ritorno rituale dell’8 marzo, il nome della donna, intorno al cui mondo ruotano ogni giorno celebrazioni e violenze, attenzione – troppo spesso morbosa – e strumentalizzazioni che continuano a ferirla nell’anima e nel corpo.
Eppure, come ogni anno, vale la pena accendere una qualche luce su questa figura dell’umano che ancora stenta, in molte parti del globo, a guadagnare rispetto e legittimità sociale; chiuse ancora in rigidi modelli culturali, rese impotenti di fronte all’uso violento della parola, sterminate nel seno materno a ragione della propria configurazione sessuale, molte donne del nostro tempo, 130 milioni secondo le stime dell’Onu, vivono ancora dentro visioni arcaiche che le relegano alla funzione di oggetto da manipolare e da violentare.
Costrette a far figli ininterrottamente per soddisfare il dominio del maschio, piegate dal lavoro a cui non segue alcun diritto, sono ancora oggi misconosciute, vilipese, oltraggiate, mutilate ed uccise, lapidate anche solo per un sospetto di adulterio. Oppure sfruttate sessualmente in tenera età, o ancora stipate nei container dei Tir, per riempire i marciapiedi delle città opulente. Queste le reiette, le rifiutate del mondo. E le altre? Quelle che il destino vede crescere in Paesi più adatti ad accoglierle? Sono allora secolarizzate, plurilaureate e rampanti, amano i legami affettivi poco impegnativi, essendo proiettate nella carriera e in quegli ambienti di lavoro, in cui seguono pedissequamente i tratti aggressivi dei colleghi maschi. Guardano con commiserazione la madre, spesso casalinga, qualche volta cittadina di due mondi, quello di casa e l’altro del lavoro, sfiancata dalla troppa fatica, delusa per la mancata realizzazione, disorientata di fronte al tempo che la consuma.
E le istituzioni, la politica, come le guarda? In questi giorni c’è un gran chiasso intorno alle quota rosa, si sbandierano – da una parte come dall’altra – volti di ragazze, inesperte e baldanzose, messe lì – è facile prevedere – per fare immagine e per rispondere domani all’appello senza fiatare.
E la Chiesa, quella gerarchica, maschilista? Soltanto da lì, senza pericolo di smentita, è arrivata una voce forte e chiara in difesa della femminilità che va restituita alla donna, a fronte della sua lenta e inesorabile decostruzione per fini sociali e politici. Una voce che, rielaborando le parole antiche del suo testo fondatore – la Sacra Scrittura – le ha di nuovo riproposto lo splendore della sua dignità, il valore della sua presenza nel mondo, presenza unica, insostituibile. Dai 20 anni dalla
Mulieris Dignitatem di Giovanni Paolo II e dalla sua Lettera alle Donne, fino alla ancora poco letta Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo dell’allora cardinale Joseph Ratzinger (2004), riecheggia l’invito alla donna a recuperare l’immagine vera del suo stare al mondo, indica ai potenti della Terra il lavoro della giustizia in ordine alla sua tutela, alla sua integrità fisica e morale, richiamando l’altra metà del cielo – in questo caso gli uomini – alla logica del rispetto, al valore della condivisione nella reciprocità e nel giusto riconoscimento. Bisogna ripartire da qui, se si vuole che la donna si senta finalmente a casa sua nel mondo.