Il catechimso di San Tommaso

Qui può scrivere chiunque trovi dei testi adatti alla formazione dei Grissini. Le cose che lo staff riterrà più idonee a tal fine saranno successivamente inserite nella sezione "Per la formazione".

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Il catechimso di San Tommaso

Messaggioda Generale Specifico » dom mag 06, 2012 5:56 pm

Qui di seguito, riporterò la traduzione italiana di quattro opuscoli che sono la registrazione stenografica di cinquantotto prediche che nell'ultimo anno di vita san Tommaso d'Aquino volle tenere ai suoi universitari e alla popolazione napoletana, dal pulpito di S. Domenico Maggiore.
Ne risultò una delle quaresime più singolari negli annali della predicazione cristiana, sia per la fama di santità e la sicurezza di dottrina, sia per la personalità del protagonista e per lo stesso filo conduttore dei sermoni.
Uomo profondamente «serio» fra Tommaso ideava gli schemi degli opuscoli minori e delle omelie che avrebbe tenuto alla messa festiva con la medesima coscienziosità a cui si ispirava nei poderosi trattati: evitando cioè di proposito artifizi e preziosità retoriche, curiose trovate oratorie e sorprese ad effetto, per puntare unicamente alla ricerca della Verità pura e semplice.
Durante la quaresima del 1273 comincia a predicare al popolo in una forma di catechesi organica. Lascia da parte il latino, che era lingua ufficiale per l'insegnamento della teologia e nelle disputae tra i dotti, per esprimersi nel dialetto appreso al tempo della fanciullezza nel castello di Roccasecca.
Commenta il Credo, il Padrenostro, l'Avemmaria e il Decalogo. Le ricchezze teologali ed esistenziali della fede e della Scrittura che la sostiene, emergono da «un linguaggio calibratissimo ma sempre alla portata di tutti».
Cinquant'anni appresso, alcuni testimoni daranno ancora l'impressione di trovarsi sotto il fascino di quella sapienza, che era riuscita ad insegnare non solo le verità salvifiche ma a porre in risalto i legami tra teologia e vita.
Anche il lettore moderno, coinvolto in questa ricerca quasi dialogica della verità, prova simpatia e gratitudine verso «maestro Tommaso».
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Re: Il catechimso di San Tommaso

Messaggioda Generale Specifico » dom mag 06, 2012 5:58 pm

COMMENTO AL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI
(«CREDO»)


Introduzione

La prima cosa necessaria al cristiano è la fede. Senza di essa nessuno di noi potrebbe, lealmente, dirsi cristiano.
Mediante la fede:

I. l'anima si unisce a Dio, per quella sorta di matrimonio spirituale descritto da Osea: «Ti fidanzerò con me in un patto fedele» (Os 2, 22). Perciò nel battezzare una persona, le si chiede innanzi tutto che dichiari la propria fede: «Tu, credi in Dio?» Il Signore l'ha detto: «Chi crederà e sarà battezzato, conseguirà la salvezza» (Mc 16, 16), lasciando intendere chiaramente che il battesimo da solo, senza la fede, non giova. Nessuno, che si rifiuti di accettarne l'esistenza, può riuscire gradito a Dio, secondo l'insegnamento di Paolo (cf. Eb 11, 6). Agostino, commentando un passo della lettera ai Romani, scrive: «Dove manchi la conoscenza della Verità eterna e immutabile, risulterebbero inutili anche le virtù di un comportamento irreprensibile».

2. La fede produce come un germoglio di vita eterna, la quale in sostanza altro non è che il conoscere [svelatamente] Dio (cf. Gv 17, 3). Quaggiù ne abbiamo una conoscenza iniziale mediante la fede, ma in futuro diverrà perfetta, e conosceremo Dio nella sua realtà. La fede, cioè, sta alla base delle realtà divine in cui speriamo (cf. Eb 11, 1). Sicché, nessuno potrà giungere alla beatitudine derivante da una piena conoscenza di Dio, se prima non ne accoglie l'esistenza per mezzo della fede.

3. Essa costituisce l'orientamento più sicuro nella vita. Per poter vivère rettamente è necessario conoscere le regole fondamentali della rettitudine; ma se per apprenderle l'uomo dovesse affidarsi alla pura riflessione, non vi giungerebbe mai o soltanto dopo lunghissimo tempo. La fede invece ci insegna tutto questo, rassicurandoci sull'esistenza di un Dio che premia gli onesti e punisce i disonesti, nonché sull'esistenza di una vita futura e altre simili verità, efficaci a orientare la vita dell'uomo verso il bene e a distoglierlo dal male; «il giusto - infatti - vivrà ispirandosi alla fede» (Ab 2, 4).
Ciò trova conferma nel fatto che prima dell'avvento di Cristo, basandosi sul proprio ingegno - elevatissimo quanto si voglia -, nessun sapiente giunse a conoscere intorno a Dio e ai mezzi atti a conseguire la vita eterna tanta certezza quanta ne possiede una vecchierella cristiana, in forza appunto della sua fede. Dopo l'avvento del Signore si realizza quanto profetizzato da Isaia, che cioè Dio si è reso conoscibile per tutta l'estensione della terra (cf. Is II, 9).
Inoltre, mediante la fede superiamo agevolmente le tentazioni. Non di rado i santi hanno vinto il contrasto coi potenti del mondo, grazie alla loro fede (cf. Eb II, 33). Sappiamo che qualunque tentazione proviene dal diavolo o dal mondo o dalla sensualità. Satana vorrebbe indurre l'uomo a non sottomettersi, disubbidendo ai precetti di Dio. La fede, al contrario, ci riconferma che egli è il sovrano Signore, cui è saggezza ubbidire. «Il vostro avversario, il diavolo - ci avverte san Pietro - si aggira come un leone alla ricerca di qualcuno da divorare. Voi resistetegli, saldi nella fede» (I Pt 5, 8 ).
Il mondo ci tenta allettandoci con le prosperità, oppure spaventandoci col timore delle tribolazioni. Anche stavolta possiamo vincere grazie alla fede, la quale ci addita un'esistenza migliore di questa, e così possiamo superare i pericoli nascosti nelle fortune e nelle disgrazie mondane. «La vittoria che trionfa su questo mondo è la nostra fede!» (I Gv 5, 4.). E in più, essa ci illumina circa disgrazie anche maggiori, cioè l'inferno, che è il peggiore dei mali.
La carne, infine, ci tenta invitandoci ai piaceri transitori della vita terrena; e ancora una volta la fede ci trae in salvo mostrandoci come, se ci attaccassimo a essi indebitamente, potremmo perdere le eterne gioie del cielo. L'utilità della fede è quindi evidente.
Taluno può giudicare una stoltezza la fede, il credere cioè in qualcosa che non cade sotto l'esperienza dei sensi. È un dubbio inconsistente, se appena cominciamo a considerare i limiti dell'intelletto umano. Nel caso potessimo davvero conoscere perfettamente tutte le cose visibili e invisibili, allora sarebbe un'autentica stoltezza accettarle per pura fede. Purtroppo, però, la nostra mente è tanto debole che mai alcun filosofo è riuscito a sondare sino in fondo la natura d'una semplice mosca: vi fu ad esempio uno studioso che rimase isolato dal resto del mondo, per trent'anni, a investigare sulle abitudini delle api...
Quindi, se l'intelletto è così debole, non sarebbe stoltezza da parte nostra, nell'investigazione di un soggetto altissimo quale è Dio, volerci fermare a quelle elementari nozioni che la ragione giunge a farsi in proposito? Si tratta niente meno di quel Dio «così grande da restar misterioso di fronte a ogni nostra investigazione, come pure è impossibile contare gli anni della sua eternità» (Gb 36, 26).
All'obiezione si può rispondere anche in quest'altro modo. Mettiamo che un maestro, competente nella propria materia, venga contestato da un profano; deve trattarsi, dirà chiunque, di persona di poco senno. Ebbene, dato che l'intelletto angelico supera di gran lunga l'intelligenza del più acuto filosofo (assai più di quanto il maestro di cui abbiam parlato non superi la limitata capacità d'intendere di un ignorante), sarebbe ben poco savio colui che negasse credito a una verità recatagli da un angelo, e molto più, dunque, se non volesse credere al Dio che si rivela. Di fatto, la fede ci manifesta parecchie cose al di sopra della pura ragione umana.
Se del resto qualcuno volesse ostinarsi ad accogliere esclusivamente ciò di cui ha diretta esperienza, un tale uomo potrebbe vivere in questo mondo? Come campare senza fidarsi dell'altrui esperienza? Chi, per esempio, potrebbe essere certo di esser figlio dell'uomo che si dice suo padre?
Quindi è necessario che ognuno presti fede agli altri, là dove la personale conoscenza non arriva. E soprattutto dobbiamo fidarci di Dio, credibile più di ogni altro. Perciò l'uomo che respinge le verità rivelate non si dimostra intelligente, bensì sciocco e orgoglioso (cf. 1 Tm 6, 4); mentre chiunque si fida di Dio e lo onora con il debito ossequio, sperimenta una certezza incrollabile.
E si può ancora aggiungere che Dio non manca di avallare l'autenticità delle verità di fede. Quando un re invia delle lettere contrassegnate col proprio sigillo, nessuno può metterne in dubbio l'autenticità. Altrettanto possiamo dire a proposito del nostro assunto: le verità di fede che i santi hanno creduto e poi tramandato fino a noi risultano autenticate da quel sigillo di Dio che sono i miracoli (ben al di sopra della portata delle semplici creature), coi quali Cristo ha convalidato l'insegnamento degli agiografi e degli apostoli.
Che se tu volessi insistere, che i miracoli stessi sfuggono alla diretta esperienza della maggior parte degli uomini, ti risponderò: la storia - comprese le fonti pagane - ci insegna che l'intera umanità credeva negli idoli mentre la fede di Cristo veniva combattuta. Ma da un certo periodo in poi il mondo prese a convertirsi al vangelo. Sapienti, nobili, ricchi, personaggi celebri e autorevoli si convertono nell'ascolto di pochi, semplici e poveri predicatori evangelici.
Ebbene, o questo è un fatto miracoloso, oppure no. Nel primo caso, eccoti la dimostrazione che cercavi. Se tu invece negassi ancora, ti farò notare che un miracolo più prodigioso di questo è addirittura inimmaginabile: che il mondo si sia potuto, senza intervento divino, convertire a Cristo. Mi pare abbastanza chiaro.
Concludendo: nessuno può ragionevolmente dubitare delle verità rivelate e, anzi, deve crederle più di ciò che percepisce attraverso i sensi. La vista, ad esempio, può ingannarsi, mentre la sapienza di Dio è assolutamente infallibile.
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Re: Il catechimso di San Tommaso

Messaggioda Generale Specifico » mar mag 22, 2012 8:37 pm

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra

Si tratta della verità fondamentale. Considerando cosa significhi la parola Dio, possiamo dire che essa indica colui che assegna una finalità alle sue creature, e le provvede dei mezzi atti a conseguirla. Quindi crede davvero in Dio colui che è convinto della sua opera sapiente e provvidenziale.
Non crede in Dio, invece, chi pretendesse di far derivare le creature dal caso. È quasi impossibile amméttere che taluno neghi l'esistenza di un ordine nel creato, in cui ogni cosa appare indirizzata verso un preciso fine: sono di comune esperienza numerosi cicli naturali, tra cui il ritorno delle stagioni; vediamo sorgere e tramontare il sole, e la luna e le stelle percorrono orbite di assoluta precisione. Dunque, esattamente il contrario del caso. Se qualcuno perciò fosse davvero convinto che Dio non esiste, deve trattarsi di uno stolto (cf. Sal 13. 1).
Vi sono altri che, pur ammettendo l'azione finalizzatrice di Dio sopra il resto della natura, la escludono per quanto riguarda l'uomo; le umane vicende sarebbero per costoro, al di fuori di ogni intervento divino. A sostegno della loro tesi adducono il fatto che in questo mondo [spesso] i buoni sono afflitti, mentre i malvagi prosperano; il che dimostrerebbe che la divinità non si occupa di noi. La Scrittura riferisce le parole di uno di tali increduli: «Che cosa può conoscere Iddio? Può forse giudicare [le nostre cose] attraverso la caligine? Le nubi gli fanno velo, quindi egli non vede in giù. Così, egli se ne va a passeggio per la cerchia dei cieli!» (Gb 22, 13-14).
Ma questa è una vera sciocchezza. I loro giudizi sono simili a quelli di chi, vedendo un medico somministrare, in base ai dettami dell'arte medica (che essi ignorano), acqua a un infermo e vino a un altro, concludono che deve trattarsi di una terapia cervellotica e di un procedere a caso.
Dio, paragonabile a un medico esperto, per quelle giuste cause che egli conosce, dispone quanto ritiene sia meglio per l'uomo, lasciando alcuni buoni nell'afflizione e altri, peccatori, nella loro prosperità. Pensare che ciò denoti disinteresse da parte di Dio è, ripeto, stoltezza e presunzione d'una creatura che pretende di dar consigli al Creatore. Contro costoro si legge in un salmo: «Van dicendo: 'Il Signore non vede' (...) Cercate di comprendere, stolti più di chiunque altro! O insensati, quando imparerete? Chi ha formato gli orecchi non udrà? chi ha plasmato gli occhi, non vedrà?» (Sal 93, 7-9).
Dio vede tutto, non esclusi i pensieri e i desideri più inconfessati. Ne deriva per noi una vigile necessità di ben fare, dal momento che ogni cosa umana non ha misteri per lo sguardo di Dio. «Tutto è chiaro e svelato agli occhi di colui al quale dobbiamo render conto» (Eb 4, 13).
Ne segue poi che questo Dio, che dispone [ordinatamente] e governa l'universo, debba essere unico, l'unico possibile; anche per la ragione che tra miriadi di esseri l'ordine è perfetto quando i medesimi siano governati da una sola mente in grado di farlo. La molteplicità dei governanti spesso induce il disordine tra i sudditi. Dunque, essendo infinitamente superiore a qualunque regime escogitato dagli uomini, è chiaro che l'ordine riscontrabile nel cosmo non può dipendere da un collegio di dèi, ma da un'unica divina intelligenza: Dio.
I motivi che inducono a credenze politeiste sono diversi.

I. La limitatezza della mente umana. Non riuscendo a varcare i confini del mondo materiale, gli uomini primitivi non sospettarono neppure l'esistenza di altre realtà all'infuori dei corpi sensibili. E tra questi supposero che i più preziosi e nobili esercitassero svariati influssi sul creato. Giunsero a rendere loro culti di adorazione, come ad esempio nel caso del sole e d'altri corpi celesti.
A costoro accadeva un po' ciò che si narra di quel sempliciotto che, entrato nella reggia per vedere il sovrano, credette di trovarsi appunto in presenza del re non appena si imbatté nel primo funzionario di passaggio, decorosamente vestito. Il sole, la luna e le costellazioni stellari non sono, come erroneamente fu creduto, i governatori di questo mondo (cf. Sap 13, 2). «Uomini, ci esorta la Scrittura, alzate gli occhi al cielo e guardate in basso la terra: i cieli svaniranno come fumo, la terra si consumerà come una veste [divorata dalle tignole], e i suoi abitanti periranno come le mosche; la mia salvezza invece [dice il Signore] dura in eterno e la mia giustizia non potrà mai esaurirsi» (Is 51, 6).

2. Anche l'adulazione può aver avuto il suo peso. Volendo lusingare un padrone o il proprio sovrano, taluni resero loro quell'onore che dev'essere tributato a Dio; così li ubbidirono ciecamente, si dichiararono loro schiavi e, col sopraggiungere della morte, elevarono un uomo al rango degli dèi, se già non lo avevan fatto ancor prima, mentre era in vita. Servano ad esempio in tal senso le parole di Oloferne: «Chi è dio se non Nabucodonosor? Egli manderà le sue forze e li disperderà dalla faccia della terra (...) e non li scamperà il loro Dio!» (Gdt 5, 29).

3. Un affetto troppo carnale verso i figli. o i parenti produce una sorta di idolatria. Non è mancato chi dedicasse loro delle statue, con una liturgia pseudodivina: «Imposero l'incomunicabile Nome alle pietre e al legno».

4. La malizia del diavolo di sicuro non rimase inattiva. Colui, infatti, che dal principio ambì d'equipararsi al suo Creatore dicendo: «Sormonterò l'altezza delle nubi, sarò simile all'Altissimo» (Is 14, 14), non desistette neanche dopo [il castigo]. Egli fa di tutto per essere adorato dagli uomini e ottenerne offerte sacrificali. Non sa che farsene di un cane o di un gatto che vengono immolati in suo onore, ma gode di vedersi oggetto di quella riverenza che è dovuta a Dio. Giunse a proporre al Cristo l'offerta di tutti i regni del mondo nella loro splendida magnificenza se, prostrato a terra-, lo avesse adorato (cf. Mt 4, 9). Per meglio ingannare gli uomini e conseguire il culto cui ambivano, i demoni presero ad abitare gli idoli, emettendo oracoli.
È qualcosa d'orribile l'idolatria, [celandosi dietro a essa il nemico di Dio], eppure non sono pochi quelli che, per una ragione o per l'altra, vi aderiscono. Anche se non lo confessano apertamente e non ne sono coscienti, tuttavia lo danno a vedere con il loro comportamento.
Quanti ad esempio pensano che gli astri siano in grado di influenzare le decisione umane, o li consultano nella speranza di ottenere risultati felici in base agli oroscopi, costoro deificano praticamente i corpi celesti, come quelli che costruiscono gli astrolabi. Il timore di fronte a prodigi celesti, quali i fenomeni naturali, devono indurre a un moderato timore, mentre i pagani, attribuendoli a inesistenti divinità, se ne spaventano oltremisura (cf. Ger 10, 2).
Chi ubbidisce al sovrano più che a Dio, o in qualcosa che contrasta coi divini comandamenti, anche costui professa una forma di idolatria; e gli Atti degli Apostoli perciò ci ricordano che «bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29).
Chi predilige, al di sopra di Dio, i consanguinei o, peggio ancora, chi smodatamente ama il cibo, anche costoro praticamente hanno i loro idoli personali. Di questi ultimi, scrivendo ai Filippesi, san Paolo dice che «loro dio è il ventre» (Fil 3, 19).
Le persone che si occupano di filtri e incantesimi attribuiscono ai demoni prerogative divine: chiedono infatti agli spiriti del male determinati responsi che solo Dio può dare, quali la rivelazione di cose nascoste o di avvenimenti futuri.
Tutto ciò, allo scopo di ribadire che esiste un unico Dio, cui competono le suddette prerogative.
Chiarito che vi è un solo Dio, passiamo ora a mostrare come egli sia il creatore e l'organizzatore del cielo e della terra, delle realtà visibili e di quelle invisibili.
Lasciando da parte le dimostrazioni sottili, porterò qualche esempio elementare. A colui che prende a considerare la realtà di questo mondo succede un po' come a chi, entrando in una casa, sentisse un certo grado di calore che vada aumentando col procedere verso le stanze più interne. Anche senza vedere la fonte da cui emana il calore, egli dirà che deve esservi un fuoco acceso.
Così, nell'universo vediamo che le cose sono ordinate secondo una scala di valori, come bellezza e nobiltà intrinseche . Le più elevate sono anche le più belle e nobili, e i corpi celesti sorpassano per dignità quelli terreni, allo stesso modo che le sostanze spirituali sopravvanzano quelle percepite dai sensi. Perciò è ragionevole concludere che l'insieme del creato dipenda da un unico. Dio, il quale dà alle singole creature l'essere e un grado determinato di nobiltà. Stolti, dunque, son quegli uomini «che ignorano Dio, e dai beni che si vedono non han saputo risalire a colui che è: anzi, pur mirando le sue opere, non ne riconobbero l'artefice ma credettero dèi, governatori del mondo, il fuoco o il vento o l'aria veloce, o il firmamento stellato o le acque violente o gli astri del cielo. Se li ritennero dèi perché attratti dalla loro bellezza, cerchino di capire quanto più meraviglioso dev'essere il Signore di quelle cose: chi le creò è l'autore della stessa bellezza. Se poi li ha colpiti l'energia che da esse sprigiona, comprendano quanto più potente è colui che le ha fatte; poiché la grandezza e la bellezza delle creature svelano alla ragione, per riflesso, l'identità del loro autore» (Sap 13, 1-5).
Nessun dubbio dunque per noi, che Dio sia l'autore dell'intero universo.

Tre errori da evitare in proposito.

I. Quello dei manichei, per i quali il creato visibile è opera del diavolo, mentre a Dio andrebbe attribuita esclusivamente la creazione degli esseri spirituali. Partivano da una verità: se Dio è il sommo bene (e lo è in effetti), tutto quanto da lui deriva dovrebbe somigliare a lui. Di qui, con una logica grossolana, deducevano che quelle cose che in qualche modo si rivelino difettose o causa di un male contingente, fossero decisamente cattive e opera del maligno. Perfino il fuoco, per essi, era cattivo perché brucia, o l'acqua in cui uno può affogare, e via dicendo. Ora, non esistendo al mondo nulla che possa dirsi perfettamente buono, ne conclusero che l'insieme delle realtà visibili dovesse trarre origine non da Dio, bontà per essenza, bensì dallo spirito del male.
Agostino ribatte con l'esempio seguente. Entrando nell'officina d'un artigiano qualcuno inciampa contro un arnese e si fa del male: se concludesse che deve trattarsi senz'altro di un'arma destinata a ferire, ragionerebbe da stolto, dal momento che l'artigiano l'adopera esclusivamente per il proprio lavoro. Altrettanto sciocco è il dedurre, dal fatto che possono nuocere in determinate circostanze, che le creature siano intrinsecamente malvagie e ordinate al male. La medesima cosa infatti che può nuocere ad uno, può giovare ad altri.
Un simile errore è contrario alla dottrina della Chiesa. Perciò nel Credo si legge che Dio è creatore di tutte le cose: «delle creature visibili e di quelle invisibili». Dio ha creato il cielo e la terra: tutto è stato fatto mediante il suo Verbo .

2. Il secondo errore, di quelli che sostengono l'eternità del mondo, deriva dalla difficoltà di intenderne rettamente l'origine. Riferendosi a codesta opinione, l'apostolo Pietro così scrive: «Da quando i padri [cui venne fatta la rivelazione] sono morti, tutto è rimasto com'era fin dal principio della creazione» (2 Pt 3, 4). E Rabbi Moyses dice che a costoro succede come a un bambino che venisse relegato, subito dopo la nascita, in un'isola [deserta]. Non avendo veduto mai una donna incinta né sapendo nulla circa le modalità del parto, se da grande gli venisse detto che egli stesso, un tempo, era stato concepito e nutrito nel grembo di sua madre, egli si rifiuterebbe di ammettere che un adulto come lui potesse esservi contenuto. Così costoro, vedendo lo stato attuale del mondo, non riescono a immaginarne il principio.
Anche questo è un errore contro la fede cattolica. Abbiamo perciò, nel Credo: «Creatore del cielo e della terra». Se le creature sono state fatte, è lo stesso che dire ch'ebbero un inizio. A un cenno del Signore cominciarono a esistere (cf. Sal 148, 5).

3. Secondo altri, Dio avrebbe formato il mondo partendo da una materia preesistente. Vorrebbero farsi un'idea della divina potenza paragonandola alla nostra. Noi, infatti, non possiamo far nulla senza una materia su cui agire; e lo stesso affermano di Dio: creò il mondo servendosi di una materia predisposta.
È un errore. L'uomo sì, essendo un agente di limitata potenza, può solo modificare la forma della materia su cui agisce. Dio però è causa totale, in grado di creare tanto la materia quanto la forma della medesima. Dunque ha fatto tutto, dal nulla, il «creatore del cielo e della terra».
Creare e fare non sono sinonimi: nel primo caso si tratta di un chiamare all'esistenza partendo dal nulla, mentre il secondo verbo indica le molteplici modificazioni operate sulla materia.
E se Dio ha fatto il tutto dal nulla, è credibile che potrebbe rifare ogni cosa, se questo mondo cessasse di esistere; e può dare a un cieco la capacità di vedere della quale era privo, nuova vita a un cadavere e fare miracoli di ogni genere. «Signore, (...) nelle tue mani sta il potere e puoi usarlo quando tu vuoi» (Sap 12, 18).
Ne derivano alcune conclusioni. L'uomo viene orientato verso la conoscenza di un Dio maestoso. Un autore emerge sempre rispetto alle proprie opere, e Dio che abbiamo chiamato «creatore dell'universo» risulta infinitamente più grande delle sue creature. La grandiosità e la bellezza delle opere divine non sono altro che un pallido riflesso del Creatore (cf. Sap 13, 3-4). Qualunque cosa noi possiamo concepire o fantasticare, resterà sempre inferiore alla realtà di Dio. Giobbe esclama con ragione: «Ecco, Dio è così grande che non possiamo adeguatamente comprenderlo... L'Onnipotente, del quale non possiamo penetrare la forza, la rettitudine, la giustizia!» (Gb 36, 26; cf. ib. 37, 23).
La nostra gratitudine riceve, dal considerare quanto detto finora, continuo impulso: è evidente che tutto ciò che siamo o abbiamo, ci viene da Dio. Alla domanda rivolta all'uomo da san Paolo: «Che cos'hai, tu, che non l'abbia ricevuta da Dio?» (I Cor 4, 7) risponde il salmista: «Del Signore è la terra con quanto essa racchiude: il mondo e i suoi abitatori» (Sal 23, 1). Quindi dobbiamo ringraziarlo, chiedendoci continuamente: «Che posso io rendere al Signore, per tutti i benefici che da lui ho ricevuto?» (Sal 115, 12).
Anche la pazienza nelle avversità ne risulta accresciuta. Ogni creatura ha origine dal volere di Dio, perciò è intrinsecamente buona: se essa ci è causa di qualche danno o sofferenza, dobbiamo escludere che voglia farci del male, colui che È; è esente dal male in assoluto, e credere piuttosto che quanto egli permette sia sempre ordinato al bene. Dobbiamo sopportare con pazienza ogni pena, in quanto esse hanno il potere di purificare l'uomo dai peccati, umiliano il colpevole, spingono i retti a un più vivo amore di Dio. «Se da Dio si accetta il bene, il male [che egli permette in ordine ai suoi fini provvidenziali] perché non dovremmo accettarlo?» (Gb 2, 10).
Una retta conoscenza di Dio ci induce a usare debitamente delle cose create, in linea con il fine inteso dal Creatore: la sua stessa gloria e il nostro vantaggio (cf. Prv 16, 4; cf. Dt 4, 19). In altre parole, dobbiamo servirci dei beni creati in maniera da non contrastare la sua volontà, evitando di macchiarci col peccato, qualora li indirizzassimo verso fini diversi dai suoi. Qualunque cosa tu possieda - dalla scienza alla bellezza, tu devi riconoscerla da lui, e servirtene per rendergli gloria (cf. I Cr 29, 14).
Infine, la conoscenza di Dio, quale Padre e creatore dell'universo, ci guida verso una maggior conoscenza dell'umana dignità. Difatti la creazione venne ordinata a quella creatura che, dopo gli angeli, più è simile a Dio: l'uomo. A lui affidò il dominio del creato (cf. Sal 8, 8 ). Non fece a sua immagine, secondo la propria somiglianza (cf. Gn I, 26) gli spazi siderali o i corpi celesti, bensì l'uomo allorché la nostra anima fu dotata di libera volontà, ed è immortale. Ciò ci rassomiglia più di qualunque altra creatura alla divina essenza.
L'uomo perciò va considerato come la creatura maggiormente elevata in dignità, dopo l'angelo. Dobbiamo far sì che i desideri immoderati verso beni a noi inferiori non degràdino questa dignità. Le creature sono al nostro servizio, ma occorre servirsene ragionevolmente, conforme ai fini stabiliti da Dio.
Egli fece l'uomo affinché governasse il creato ma restasse a lui soggetto. Dobbiamo quindi disporre dei beni creati rimanendo però sottomessi al Creatore, pronti a ubbidirgli sollecitamente. Arriveremo in tal modo al godimento di Dio.
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Re: Il catechimso di San Tommaso

Messaggioda Generale Specifico » gio mag 24, 2012 10:49 am

[ Credo ] in Gesù Cristo, suo unico Figlio e Signore nostro

La seconda verità di base cui i cristiani devono prestare fede è questa: Gesù è vero figlio di Dio. Non si tratta di leggenda ma di verità certa, garantita dalla voce che risuonò sul monte [della trasfigurazione]. Ne è testimone lo stesso Pietro, trovatosi presente: «Siamo stati testimoni della sua maestà. Lassù [Cristo] ha ricevuto da Dio Padre onore e gloria, quando tra il glorioso splendore gli fece udire una voce, che diceva: «Questi è il mio Figlio diletto, in cui ho riposto tutta la mia compiacenza. E noi l'abbiamo udita questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sulla montagna santa, sicché acquista per noi una forza ancor maggiore la parola dei profeti» (2 Pt I, 16-19).
Gesù stesso, in diversi passi del Vangelo chiama Dio «Padre mio», e si definisce «Figlio di Dio», cosicché gli apostoli e i santi padri poterono aggiungere tra gli articoli di fede che Gesù Cristo è vero Figlio di Dio.
Non mancarono gli eretici, che intesero erroneamente questa verità.
Fotino asseriva che il Cristo può esser considerato figlio di Dio non diversamente da un qualunque uomo virtuoso che, vivendo secondo i precetti divini, si comporta (per dirla con espressione metaforica) da figlio adottivo di quel Dio che egli onora. Così avrebbe fatto Gesù: vivendo santamente in ossequio alla volontà divina, meritò l'appellativo di «figlio di Dio». Di più, Fotino sostenne che il Cristo ebbe esistenza solo nel momento in cui venne concepito dalla beata Vergine.
Il suo ragionamento pecca doppiamente. Per prima cosa egli erra nel non credere che Gesù sia Figlio di Dio, consostanziale col Padre; poi nell'attribuirgli un'esistenza puramente temporale. La dottrina cattolica insegna invece che Cristo è Figlio di Dio in forza della comunione nella divina natura, e professa la fede nell'eternità del Verbo che si incarna in Maria. La sacra Scrittura smentisce ampiamente le gratuite asserzioni di questo eretico. Ad esempio, leggiamo del Cristo che non solo è figlio, ma figlio unigenito del Padre (cf. Gv 1, 18). Gesù afferma di sé stesso: «Prima che Abramo nascesse, io già esistevo» (Gv 8, 58). Abramo visse assai prima di Maria. Egli è perciò «figlio unigenito di Dio; nato dal Padre prima di tutti i secoli».
Sabellio, pur ammettendo che Cristo preesisteva a sua madre, sostenne tuttavia che non ci sono un Padre e un Figlio. È il Padre in persona a incarnarsi. Dottrina ereticale, che intacca il dogma della Trinità, esplicito ad esempio nel Vangelo di Giovanni: «Non sono solo - afferma Gesù - perché con me ho il Padre, che mi ha inviato [mediante l'opera dello Spirito]» (Gv 8, 16). Nessuno evidentemente può inviare se stesso. Sabellio, quindi, ha torto. Nel Credo leggiamo così che Cristo è «Dio [proveniente] da Dio; Luce da Luce»: cioè, Dio Figlio procede da Dio Padre, e il Verbo è luce intellettiva derivante dal lume divino che è il Padre.
Ario non commette gli errori precedenti, però attribuisce a Cristo tre elementi inaccettabili: egli sarebbe una creatura quanto si voglia nobilissima, esistente non ab aeterno; e non avendo la medesima natura del Padre, non potrebbe dirsi vero Dio.
Anche qui le autorità scritturistiche parlano chiaro. «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 30); evidente perciò l'unità di natura tra le persone divine. E come il Padre è vero Dio, altrettanto lo è il Figlio. Non creatura, ma «Dio vero da Dio vero»; non creato nel tempo, bensì «generato» nell'eternità e «della stessa sostanza del Padre».
Siamo convinti che Cristo è il Figlio unigenito del Padre, a lui consostanziale e coeterno. Quaggiù noi professiamo queste verità mediante l'atto di fede; nella vita eterna ne avremo la chiara visione. Intanto possiamo render più confortevole l'attesa sviluppando qualcuno dei punti sopra accennati.
Il termine generazione può avere diversi sensi: Dio infatti genera in modo assai diverso dai modi in cui si esplica il molteplice riprodursi delle creature. Orbene, se vogliamo farci un'idea meno impropria della divina azione generante, prendiamo in considerazione quella realtà che, nel campo della nostra esperienza, più si avvicina all'essere di Dio. Dobbiamo cioè partire dall'anima umana, la quale, mediante i suoi concetti universali concepisce appunto, o genera, un verbum ossia la parola dell'intelletto.
Il Figlio di Dio altro non è che il Verbo, la Parola del Padre, non nel senso di una delle nostre parole che pronunziandole situiamo al di fuori di noi stessi. Egli è piuttosto somigliante al concetto mentale che resta interiorizzato nell'intelligenza. Il Cristo è Verbo intimo alla Trinità, della medesima natura del Padre e dunque Dio egli stesso. Nel prologo del suo Vangelo, parlandoci del Verbo, san Giovanni respinge con un'unica espressione le tre eresie fin qui esaminate: «In principio era il Verbo», contro quella di Fotino; «e il Verbo era presso Dio», contro Sabellio; «e il Verbo era Dio», contro la dottrina di Ario (Gv I, 1).
Essendo il Verbum Dei la medesima realtà che il Figlio di Dio - e ogni parola di Dio ne riflette in qualche modo l'infinita ricchezza -, dobbiamo:
1) ascoltarne volentieri il messaggio. È segno che amiamo il Signore;
2) credere a quanto egli dice. In tal modo il Verbo di Dio prende dimora in noi, attraverso la fede (cf. Ef 3, 17);
3) meditare continuamente sulle parole uscite dalla bocca di Dio. Diversamente la fede non produrrebbe i suoi frutti; e una tale meditazione è assai efficace contro il peccato, seguendo l'esempio del salmista che scrive: «Custodisco nell'intimo le tue parole per non peccare e offenderti» (Sal 118, 11), mentre in altro salmo è detto dell'uomo giusto che «medita la legge di Dio giorno e notte» (Sal I, 2). Di Maria, infine, narra san Luca che «conservava ogni parola udita [sul conto del Figlio], meditandola attentamente» (Lc 2, 51).
4) Si richiede inoltre che l'uomo, nutritosi della divina dottrina, la comunichi anche agli altri, ammonendo o predicando con fervore, per l'edificazione del prossimo (cf. Col 3, 16). Il medesimo apostolo raccomandava, scrivendo ai cristiani di Colosse: «La parola di Cristo coi suoi tesori abiti in voi; istruitevi ed esortatevi a vicenda con tutta saggezza (...), secondo che la grazia v'ispira» (Col 3, 16), mentre a Timoteo dà un consiglio valido per chiunque sia preposto al governo dei suoi fratelli in Cristo: «Predica il vangelo, insisti a tempo e fuori tempo, riprendi, minaccia, esorta, sempre con pazienza e integrità di dottrina» (2 Tm 4, 29).
5) La Parola di Dio dev'esser principalmente tradotta in pratica, sì da non meritare il rimprovero di Giacomo: «Non vi limitate ad ascoltarla, ingannando voi stessi» (Gc I, 22).
Nel dare dalla propria carne un corpo al Verbo divino, la beata Vergine Maria adempì tutto ciò perfettamente. L'ascolto della Parola [di cui l'angelo è messaggero]: «Lo Spirito Santo verrà su di te, la potenza dell'Altissimo ti coprirà della sua ombra» (Lc I, 35). Il consenso della fede: «Eccomi, sono l'ancella del Signore» (Lc I, 38 ). Essa lo andò formando e custodì nel grembo. Lo diede alla luce. Lo nutrì col suo latte. La Chiesa può cantare di lei: «Colma di celesti tesori, la Vergine Madre allatta il re degli angeli».


Fu concepito per opera dello Spirito Santo. Nacque da Maria Vergine

Occorre credere poi nell'incarnazione del Verbo, seguendo l'evangelista Giovanni che, dopo averci rivelato [nel prologo del quarto Vangelo] verità ardue e sublimi, passa ad accennare all'incarnazione del Figlio di Dio: «E il Verbo si è fatto uomo» (Gv I, 14).
Per meglio intenderci, porteremo due esempi. Abbiam detto che non è possibile trovare un'altra immagine atta a rappresentarci il Verbo del Padre, all'infuori del pensiero concepito dalla mente umana. Nessuno può conoscerlo finché esso rimanga racchiuso nell'anima di colui che l'ha pensato. Proferendolo, egli lo comunica all'intorno. Analogamente, fino a quando il Verbo rimase nella mente del Padre, nessun altro oltre al Padre poté conoscerlo. Incarnandosi (come accade al nostro pensiero, reso sensibile non appena si riveste di suoni intelligibili), il Verbo divino divenne manifesto anche per gli uomini. Simile alla sapienza creatrice di cui parla il profeta Baruc, il Verbo [incarnato] «apparve sopra la terra. e abitò in mezzo agli uomini» (Bar 3, 38).
Altro esempio. Possiamo conoscere l'altrui pensiero mediante la parola captata dall'organo dell'udito, ma non la si può, però, né vedere né tanto meno toccare, finché non venga scritta sopra una pagina: allora appare ai nostri occhi, assume una qual certa consistenza fisica.
Così il Verbo divino si rese visibile e tangibile, quando fu come scritto nella umana carne. Noi, che usiamo chiamare parola del re la carta stessa su cui è stilato il suo volere, indichiamo col nome di Figlio di Dio l'uomo cui ipostaticamente venne a unirsi il Verbo. Nel Credo perciò si afferma che egli fu «concepito per opera dello Spirito Santo, nacque da Maria Vergine».
Anche su questa verità di fede furono in molti a errare; sicché nel sinodo di Nicea i padri [della Chiesa] aggiunsero varie precisazioni contro le nuove eresie, come si può vedere nell'antica formulazione dogmatica.
Origene, infatti, insegnava che Cristo era venuto al mondo per salvare tutti, compresi i demoni. Alla fine avrebbero conseguito la redenzione gli stessi spiriti del male. Il che è contro la Scrittura, la quale registra a loro riguardo la sentenza di Cristo giudice: «Andate lontano da me, voi maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi sostenitori» (Mt 25, 41). Di qui l'aggiunta, nel Simbolo: «[Il Verbo si è incarnato] per noi uomini, per la nostra salvezza (non già per quella dei demoni)». Un segno di più dell'amore che Dio ha voluto riservarci.
Fotino, concesso che Cristo era nato da Maria, ne faceva un semplice uomo che, vivendo rettamente nell'adempimento della divina volontà, meritò d'essere elevato al rango di figlio di Dio, come del resto gli altri santi. Trova però smentita nelle parole di Gesù riportateci da Giovanni: «Son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38). Se ne è discéso, è segno che vi si trovava, e un comune mortale non abita nei cieli. Egli invece veramente «discese dal cielo».
I manichei sostenevano che, pur essendo stato sempre Figlio di Dio, venendo sulla terra egli non assunse un corpo reale, ma solo apparente. Ciò è falso, anche perché non era conveniente che il Maestro della verità ricorresse agli inganni, ma soprattutto se consideriamo le parole di Gesù [e la conseguente testimonianza degli apostoli]: «Guardate le mie mani e i miei piedi: son proprio io. Palpatemi e osservatemi: uno spirito infatti non ha carne e le ossa come vedete che ho io» (Lc 24, 39). Esatta, quindi, la formulazione: «Il Verbo si è incarnato».
Ebione l'ebreo disse che il Cristo, vero figlio di Maria, sarebbe il risultato di un normale rapporto coniugale. Ma l'angelo, rassicurando Giuseppe, dice esplicitamente: «Non temere di prendere con te Maria, tua fidanzata, perché colui che in lei è stato concepito è opera dello. Spirito Santo» (Mt I, 20). E il Credo annota fedelmente tale verità.
Valentino ammette che il Cristo fu concepito secondo le parole dell'angelo, ma suppose che l'opera dello Spirito Santo fosse consistita nel deporre nel grembo di Maria quella medesima [nobile] sostanza che costituisce le emanazioni celesti, da cui ebbe origine il corpo umano del Cristo. La Vergine fu, per quest'eretico, null'altro che l'asilo vivente che protesse il bambino nei mesi della gestazione, un puro tramite che gli permise di comparire tra noi. Eppure, ancora una volta l'angelo aveva parlato con chiarezza: «Il figlio che da te nascerà, il Santo, sarà detto 'Figlio di Dio'» (Lc I, 35), e altrettanto chiaro scrive san Paolo: «Trascorso che fu il numero dei secoli prestabiliti, Dio mandò suo Figlio, fatto da una donna» (Gal 4, 4). «Nato - perciò - da Maria Vergine».
Ario e Apollinare dicevano: Cristo è il Verbo di Dio, Maria ne è veramente la madre, però quel figlio non ebbe un'anima propria, simile alla nostra, essendo sufficiente ad animarlo la divinità. Questa tesi va contro diversi passi della Scrittura. Ad esempio: «Adesso provo angoscia nell'anima!» (Gv 12, 27); oppure: «La mia anima è triste, quasi fino a morirne» (Mt 26, 38 ). A evitare eresie in proposito, i Padri aggiunsero nel Simbolo: «Si è fatto uomo», dotato d'un'anima e di un corpo, integralmente uomo, escluso il peccato.
La formula in questione, circa la vera natura umana del Cristo, si è dimostrata valida anche contro gli errori di Eutiche (56) e quelli di Nestorio (57). Costui affermava che il Figlio di Dio inabitava semplicemente l'uomo Gesù (ma leggiamo nel vangelo di Giovanni, letteralmente: «Voi cercate di uccidere quest'uomo che sono io e v'ho detto una verità che ho conosciuto stando presso il Padre» (cf. Gv 8, 40). Il primo, cioè Eutiche, aveva fantasticato nella persona del Cristo una mescolanza delle due nature - quella divina e quella umana, da cui però sarebbe risultato un essere che, propriamente parlando, non era né Dio né uomo. Il Credo perciò sostiene che il Verbo si è fatto uomo.
Possiamo ormai trarre alcune conclusioni di notevole importanza.

I. La fede cristiana, considerando il mistero dell'incarnazione viene a essere rafforzata. Se qualcuno raccontasse meraviglie a proposito di terre sconosciute che mai ha visitato, gli daremmo credito fino a un certo punto. Qualcosa di simile accadde a proposito della rivelazione: patriarchi e profeti e lo stesso Giovanni Battista furon creduti con un certo margine di riserva, assai meno cioè di quanto non fu creduto il Cristo, l'inviato del Padre, anzi Dio egli medesimo. La nostra fede, basata sul messaggio di Gesù, ha quindi un ottimo fondamento. L'unigenito Figlio che vive nel seno del Padre ci ha fatto conoscere non la legge di Mosè ma la grazia e la verità (cf. Gv I, 18; 17). Egli ha illuminato molti misteri, fino allora nascosti al genere umano.
2. La speranza si eleva più fiduciosa, al pensiero che il Figlio di Dio è venuto tra noi, come uno di noi, per un non lieve motivo: al contrario, assunti corpo e anima d'uomo, si degnò di nascere dalla Vergine per comunicare agli uomini la propria divinità. Si è fatto uomo per elevare l'uomo sino a Dio. «Mediante la fede in Gesù Cristo abbiamo ottenuto l'accesso a questa grazia in cui siamo, e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio» (Rm 5, 2).
3. Si ravviva la carità. Nessun indizio più evidente dell'amore che Dio ci serba, quanto il vedere il creatore dell'universo farsi egli stesso creatura, il Signore farsi nostro fratello, il Figlio di Dio diventare figlio dell'uomo. «Dio ha tanto amato il mondo da sacrificare il proprio Figlio unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Come possiamo restare indifferenti e non sentirci infiammati d'amore, a nostra volta?
4. Siamo stimolati a preservare l'anima dal peccato. Essa acquistò una nobiltà somma dall'essere unita a Dio e, nella persona del Cristo, elevata alla comunione con la persona del Verbo. Comprendiamo così perché, avvenuta l'incarnazione, l'angelo non permise che Giovanni lo adorasse, mentre i messaggeri celesti erano soliti ricevere questa sorta di ossequio anche da parte dei massimi patriarchi.
Considerando debitamente una simile elevazione, l'uomo deve avere in orrore di abbassarsi nel peccato. Scrive l'apostolo Pietro: «Dio Padre ci ha chiamati alla fede e (...) ci ha messo in possesso dei preziosi e magnifici beni promessi, affinché (...) diveniamo partecipi della natura divina fuggendo la corruzione che esiste nel mondo a causa della concupiscenza» (2 Pt I, 4).
5. Infine, sentiremo infiammarsi il nostro desiderio di raggiungere Cristo [nella gloria]. Se il fratello di un re stesse lontano, certo bramerebbe di poter vivergli accanto. Ebbene, Cristo ci è fratello: dobbiamo quindi desiderare la sua compagnia, diventare un sol cuore con lui, imitando l'apostolo Paolo che avrebbe voluto morir subito per non tardare ulteriormente l'incontro col Signore (cf. Fil I, 23). Meditando sul mistero dell'incarnazione, s'accresce questo desiderio.
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Re: Il catechimso di San Tommaso

Messaggioda Generale Specifico » lun feb 10, 2014 3:37 pm

Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto

Accolta la realtà dell'incarnazione del Verbo nella persona di Cristo, il cristiano deve credere alla sua vita sofferente, che si concluse con la morte [in croce]. Che cosa ci avrebbe giovato il nascere - si chiede san Gregorio -, se poi non avessimo trovato un redentore ? Questo mistero, che cioè Cristo sia morto per noi, è talmente sublime, che il nostro intelletto riesce a farsene appena una pallida idea. Impossibile
penetrarlo sino in fondo! Davvero, nella vicenda del Cristo si è compiuta un'opera divina quasi incredibile a raccontarsi (cf. At 13, 41; Ab 1, 5). La gratuita carità di Dio nei nostri riguardi è stata così munifica, che stentiamo a percepirne la portata.
Non dobbiamo tuttavia credere che, morendo il Cristo, sia morta la stessa divinità. Fu soggetta alla morte la natura umana unita al Verbo. Cristo morì in quanto uomo, non certo in quanto era Dio. Vediamo di spiegarci meglio.
Quando muore uno di noi, ossia quando l'anima si separa dal corpo, è in quest'ultimo che si spegne la vita, giacché l'anima sopravvive. In Gesù sopravvissero e l'anima e la divinità.
Si affaccia a questo punto una obiezione: se non uccisero la divinità, i giudei [che decisero l'eliminazione del Cristo] sono colpevoli di un semplice omicidio. Al che rispondo: se qualcuno insudicia intenzionalmente la veste del sovrano, non viene considerato colpevole di reato allo stesso modo che se ne avesse imbrattato la persona? Perciò, sebbene non abbiano ucciso Cristo-Dio (cosa impossibile), gli autori [morali] della morte di Gesù hanno meritato, in base alle loro intenzioni, una gravissima condanna.
E poi, come si è detto, il Figlio di Dio, Parola dell'eterno Padre, incarnandosi s'è reso in qualche modo visibile, leggibile come uno scritto
davanti ai nostri occhi. Chi lacerasse un decreto regio, attenta alla stessa maestà regale; e quindi il peccato di quei giudei è di tentato deicidio.
Altra possibile domanda: era necessario che il Verbo divino patisse per noi? Sì, era necessario, oltre che opportuno. Dalla passione del Cristo deriva un rimedio molteplice, contro le conseguenze del peccato.
I. Infatti, peccando, l'uomo deturpa la propria anima dato che la virtù è un'interiore bellezza, che viene a essere imbruttita dalla colpa. Riecheggia il lamento del profeta: “Per qual motivo, o Israele, sei in terra nemica, invecchi in un paese straniero, ti vai contaminando tra i morti, (...) tra coloro che discendono nell'abisso?” (Bar 3, 10-11). La passione sofferta dal Cristo vi apporta il giusto rimedio: il sangue sparso da lui è come un lavacro spirituale, in cui i peccatori potranno purificarsi (cf. Ap I, 5). Il sacramento del battesimo acquista una forza rigeneratrice, in virtù appunto del sangue di Gesù.
Chiunque pecchi dopo il battesimo, reca a Cristo una maggiore offesa, secondo la giusta ammonizione di Paolo: “Colui che abbia violato la legge di Mosè è messo a morte - sulla deposizione di due o tre testimoni - senza misericordia; di qual supplizio più atroce pensate voi non sarà degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio e reputa come immondo il sangue della sua alleanza, col quale è stato santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito della grazia?” (Eb 10, 28-29).
2. Peccando, offendiamo Dio. Come l'uomo carnale ama la bellezza fisica, così egli predilige l'interiore armonia che abbellisce l'anima. Il peccato la inquina, Dio ne rimane offeso e ne prova disgusto: “Il Signore odia in egual misura l'empio e la sua empietà” (Sap 14, 9).
Cristo pone rimedio a tale situazione, rendendo al Padre quella soddisfazione che l'uomo non avrebbe mai potuto dargli. La carità del Figlio, la sua ubbidienza hanno superato la portata dello stesso peccato d'origine. “Siamo stati riconciliati con Dio, noi suoi nemici, mediante la morte del suo Figlio” (Rm 5, 10).
3. Cresce la nostra fragilità morale. Possiamo illuderci di riuscire a evitare nuove cadute, ma l'esperienza ci convince facilmente del contrario. A seguito del primo cedimento l'uomo risulterà debilitato e proclive a cedere. Il peccato ci domina gradualmente e, abbandonati a noi stessi, rassomigliamo sempre più a chi si getta in un pozzo da cui non potrà uscire se altri non lo aiuta. La natura umana è stata indebolita e corrotta dal peccato d'origine, l'uomo è maggiormente incline a cadere. Ed ecco il Cristo, che viene a ridurre la portata di questa nostra infermità morale. La natura non è ricondotta allo stato primigenio, ma l'uomo trae energia dai meriti della passione di Cristo,
mentre la forza del male è in qualche modo sotto controllo di quella grazia divina che ci proviene dall'uso dei sacramenti. I nostri sforzi per risalire la china non saranno dunque più vani, come per l'uomo vecchio, schiavo del peccato (cf. Rm 6, 6). Prima che Gesù si offrisse in olocausto, ben pochi saranno stati gli uomini cui riuscì di vivere senza colpe gravi. Dopo, invece, tantissimi son vissuti e vivono liberi da tale schiavitù.
4. Un altro effetto del peccato è la conseguenza penale che trae seco. La divina giustizia esige che chiunque abbia peccato debba essere punito, commisurando la pena sulla gravità della colpa. Ora, essendo praticamente infinita una colpa come quella del peccato mortale - un attentato al bene infinito che è Dio e che viene gravemente offeso dal trasgressore della legge -, la pena dovrà essere proporzionata.
In forza dei suoi patimenti, Cristo ci ha liberati dall'obbligo di saldare un debito umanamente insolvibile. Pagò egli stesso, al posto nostro, di persona. Egli, secondo l'espressione apostolica, “ha portato su di sé i nostri peccati: nel proprio corpo crocifisso al legno della croce, affinché noi, separati da tutto ciò che è peccato, vivessimo secondo giustizia. Siete stati guariti al prezzo delle sue piaghe” (I Pt 2, 24). La passione di Gesù fu di tale efficacia, che sarebbe sufficiente a espiare i peccati di tutto il mondo, fossero pure in numero infinito.
Questo è il motivo per cui, a contatto col sacramento, i battezzati ricevono la piena remissione delle loro colpe. È la passione del Cristo che conferisce al sacerdote un potere assolutorio, e quanto maggiormente una persona si conforma alla passione del Cristo, tanto più ampio è il perdono e più abbondante la grazia.
5. Il peccatore perde ogni diritto d'entrare nel regno dei cieli, secondo la pena dell'esilio riservata ai colpevoli di lesa maestà. Adamo, per primo, fu scacciato dal paradiso [terrestre], e alle sue spalle venne sbarrato l'ingresso anche di quello celeste. Cristo lo riaprì grazie ai meriti della sua passione [e morte]. Gli esuli videro revocato il divieto di rientrare in patria. La porta del regno dei cieli fu di nuovo aperta nel momento in cui veniva squarciato il fianco al Cristo, spirato sulla croce. Versato che fu il suo sangue, scomparve la macchia del peccato, fu placato lo sdegno del Padre, la fragilità umana trovò un rimedio, ed espiata la pena gli esuli sono richiamati in patria! A uno dei due malfattori [morente sul Calvario] venne fatta la promessa: “Oggi stesso sarai con me in paradiso” (Lc 23, 43). Non sono parole rivolte a qualcun altro, ad Adamo per esempio, o ad Abramo il patriarca o al re e profeta David... Qui non si tratta di profezia che dovrà attendere per lungo tempo d'essere adempiuta: “Oggi”, gli dice, nel giorno stesso in cui la porta dei cieli venne riaperta. Il delinquente pentito ottenne senza dilazioni il perdono implorato. Sperimentò in quel medesimo giorno ciò che dice san Paolo: “Grazie al sangue di Gesù Cristo, abbiamo la certezza di poter entrare nel santuario” (Eb 10, 19). Quanti utili esempi, poi, ricaviamo dalla meditazione del sacrificio di Cristo! Infatti, come nota sant'Agostino, la passione di Gesù è sufficiente per impostare di sana pianta l'umana esistenza. Chiunque voglia vivere una vita
di perfezione, altro non dovrà fare che disprezzare ciò che il Salvatore respinse fino alla croce, e non amare qualcosa di diverso da ciò che egli amò.
Non c'è virtù che dalla morte in croce del Cristo non tragga incentivo.
6. Difatti, se cerchi un esempio d'amore (e nessuno ne ha uno più grande di chi sappia sacrificare la vita per gli amici) (cf. Gv 15, 13), vedi che Cristo te lo seppe dimostrare salendo al tuo posto in croce. Se quindi ha esposto la propria vita nel suo farsi olocausto d'amore, non dobbiamo giudicare eccessivo il soffrire le nostre croci per amor suo. Niente di più gradito potrò offrire al Signore, in cambio dei molti doni che mi ha elargito (cf. Sal 115, 12).
7. Se invece vi cerchi mi esempio di pazienza, la croce del Cristo è di per sé la risposta più eloquente. Un uomo dà prova di vera pazienza quando accetta le grandi traversie della vita, oppure qualora si esponga a gravi disagi che potrebbe evitare. Ebbene, la pazienza del Cristo fu magnanima specie sulla croce. Avrebbe potuto ripeterci: “Oh, voi tutti che passate per la via, fermatevi a considerare se vi sia un dolore simile al mio!” (Lam I, 12). Tollerò pazientemente ogni spasimo, e “ingiuriato, non rispondeva con ingiurie” (I Pt 2, 23). Di lui aveva
profetato Isaia: “Era maltrattato ma restava sereno, non diceva una parola, simile a un agnello che si porti a uccidere; come la pecora rimane muta dinanzi a chi la tosa, egli non aprì la bocca per lamentarsi” (Is 53, 7). Avrebbe potuto facilmente evitare tanta sofferenza, ma preferì andarle incontro; e a Pietro che aveva usato la spada per difenderlo, chiedeva: “Credi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che avvenga così?”. Giudica tu, da te stesso, se fu grande la pazienza del Cristo in croce. Perciò, “corriamo [anche noi] nell'arena che ci è aperta dinanzi, tenendo lo sguardo fisso all'autore e perfezionatore della fede, Gesù, il quale anziché il gaudio di cui poteva disporre, preferì sopportare la croce senza curarsi dell'ignominia” (Eb 12, 1-2).
8. Nel Crocifisso troverai il modello per la tua umiltà: Dio che si lascia trascinare in tribunale, dinanzi a Ponzio Pilato, per subirvi un [iniquo]
processo ed essere condannato a morte. La sua causa parve subito quella di un pregiudicato (cf. Gb 36, 17), di un delinquente della peggiore specie, cui viene riservata una morte ignominiosa (cf. Sap 2, 20). Il Signore che si espone a morire al posto del suo servo! Colui che è vita degli angeli, si lascia uccidere per noi uomini!
9. Non potresti trovare un più alto esempio d'ubbidienza, alla scuola di colui che fu ubbidiente al Padre sino a morire! (cf. Fil 2, 8 ). E “come per la disubbidienza di un solo uomo gli altri sono stati resi peccatori, così per l'ubbidienza di uno, gli altri saranno resi giusti” (Rm 5, 19).
10. E se infine vai cercando un perfetto esempio di disprezzo delle cose terrene, segui il Re dei re, il Sovrano dei sovrani, colui che racchiude in sé la sapienza in grado massimo: e tuttavia lo trovi spoglio sulla croce, dove muore dopo essere stato schernito, oggetto di sputi, percosso e abbeverato con fiele e aceto... Non attaccarti perciò eccessivamente a vesti e ricchezze, di fronte a Gesù che ti ripeterebbe: “Si dividono tra loro gli abiti miei; tirano a sorte la mia tunica” (Sal 21, 19); non attaccarti agli onori, giacché [l'Uomo dei dolori] ti ricorda: “Io ho conosciuto gli insulti e le percosse. Non mirare alle posizioni di prestigio, se a me fu riservata una corona di rami spinosi intrecciati; non alle cose che danno gusto, se per me i carnefici seppero trovare soltanto una spugna imbevuta d'aceto”. Commentando il passo in cui l'Apostolo considera i patimenti sofferti dal Figlio di Dio (cf. Eb 12, 1-2), Agostino ha scritto: “Gesù Cristo spregiò tutte le cose terrene, per insegnarci a disprezzarle”.
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