L'INGEGNERIA CIVILE DI VITO MANCUSO - di Luca Doninelli
Leggo sulla Repubblica del 13 gennaio un articolo a firma del teologo Vito Mancuso il cui contenuto è bene illustrato dal titolo: «La religione civile che manca all’Italia». Mancuso osserva come in Italia la società si stia sfaldando, come il «particulare» prevalga sempre più sugli interessi comuni, e come questo sfaldamento sia causato da una mancanza di «religione».
L’etimologia della parola «religione» è controversa. C’è chi sostiene che venga da «re-legere», che indicherebbe cura, attenzione, sguardo attento e quindi apertura al divino (o, se vogliamo, al totalmente-altro, come lo chiamavano a Francoforte); e chi, come Mancuso, sostiene che venga da «re-legare», e vede la religione come principio unificatore della società umana.
L’uomo religioso è, per Mancuso, l’uomo che sa sacrificarsi in nome di un principio più grande di sé. Per il civis romanus, dice, Roma è qualcosa di più che un freddo insieme di leggi e ordinamenti: è qualcosa per cui dare la vita. L’augurio di Mancuso è che anche in Italia, contro il prevalere dei furbi, sorga una religione civile. Questa religione non è il cristianesimo (la smetta perciò la Chiesa di difendere i propri diritti particolari), ma non può nemmeno essere fatta senza di esso, perché questa è - parole di Mancuso - «la tradizione».
Vorrei però ricordare alcune cose che Mancuso sembra dimenticare nella sua lezioncina. La prima è che il Cristianesimo è nato in polemica con la società, sia romana che giudaica, tanto che molti ebrei ritengono Gesù Cristo il responsabile primo della stessa diaspora, in quanto distruttore dell’identità giudaica. Perciò anche Gesù avrebbe, secondo la linea protestante di Mancuso, qualcosa da imparare, quanto a religione civile.
La seconda è che il Cristianesimo subì persecuzione principalmente per il rifiuto dei cristiani di concepire la loro religione come una delle tante religioni civili dell’Impero Romano, così caro a Mancuso. Il Pantheon? No, grazie. La fede non è un oliatore degli ingranaggi statali o sociali.
Venne poi, è vero, un momento in cui la Chiesa di fatto si identificò con la struttura stessa dell’Impero, ma questo dipese anche dal progressivo sfaldamento dell’Impero e della necessità di tenerlo in vita. Ricordo il fastidio di Agostino vescovo, costretto a fare il pretore (nel senso moderno della parola), e le sue sorprendenti parole all’indomani del sacco di Roma del 410.
La storia ci insegna anche che questa opera di puntello finì, e che nell’Europa imbarbarita la Chiesa ricominciò dai monasteri, ossia da punti nello spazio e nel tempo dove la fede in Cristo, nella salvezza portata da Lui, potesse essere incarnata in un modo più umano di vivere il quotidiano.
La fede (non la «religione civile»): la fede è il lievito del mondo, il principio di ogni vera tolleranza e di ogni vero pluralismo. Il resto è utopia che diventa ingegneria sociale.