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UNIONI CIVILI a ROMA -Roma 7 del 18 Gen. 2014

MessaggioInviato: gio gen 23, 2014 3:41 pm
da Leonardo
Roma 7

Unioni civili a Roma, "Roma Sette":
«Forzatura giuridica miopia politica»


“La proposta intende tutelare e sostenere le unioni civili equiparandole alla famiglia fondata sul matrimonio per gli ambiti di competenza comunale. Il pretesto, diremmo noi, è evitare ogni forma di discriminazione”. Ma “la vera discriminazione consisterebbe nel trattare in modo uguale situazioni differenti, come sono le unioni civili e il matrimonio: nel secondo, infatti, due soggetti assumono precisi diritti e doveri di fronte alla legge, con rilevanza negoziale pubblica. Non si può barare con le parole”.

È quanto afferma Angelo Zema, direttore del sito di informazione http://www.romasette.it e responsabile del settimanale Roma Sette, nell’editoriale che sarà pubblicato domani - domenica 19 gennaio - sul periodico della diocesi di Roma in edicola con Avvenire in merito alla delibera per il riconoscimento e l’istituzione di un registro delle unioni civili approvata nei giorni scorsi nelle commissioni capitoline. Con il varo della delibera, si legge nell’editoriale “a essere discriminate sarebbero le famiglie”.

“Distinguere non è discriminare ma rispettare: questo dovrebbe essere chiaro. A meno che non si voglia immaginare di fornire assist a normative nazionali - ancora inesistenti - o di preparare qualche coup de théâtre nella città del Papa, cuore della cristianità”. “Allora si può tutto - annota Zema - perfino scrivere che ‘un consolidato rapporto coinvolge interessi meritevoli di tutela, al pari di ciò che accade per l’istituto del matrimonio’, salvo contraddirsi riconoscendo l’iscrizione al registro delle unioni civili ‘senza previa richiesta di tempi minimi di coabitazione’, e ancora concedere i locali del Campidoglio adibiti alle celebrazioni dei matrimoni civili per uno ‘pseudo-matrimonio’ che suggelli l’iscrizione al registro, alla presenza di un delegato del sindaco”.

“Un tocco hollywoodiano”, lo definisce il direttore del sito Roma Sette, “una concessione alla scenografia per un’idea priva di sostanza, se si considera non solo l’inutilità giuridica di tale strumento ma anche il flop dei registri delle unioni civili in sei Municipi romani (meno di 50 coppie iscritte in 8 anni, come dimostrato da un’inchiesta di Avvenire). Insomma, la delibera è una forzatura giuridica, frutto di miopia politica. Di una politica - conclude l’editoriale - che non sa guardare lontano, che vola basso e resta al palo dibattendosi tra le emergenze irrisolte della città”.

Re: UNIONI CIVILI a ROMA -Roma 7 del 18 Gen. 2014

MessaggioInviato: gio gen 23, 2014 4:02 pm
da Leonardo
L’elogio della normalità di Pupi Avati

Se il matrimonio è trasgressione

Si dissocia da quelli che chiama «gli spacciatori di infelicità», coloro i quali, avendo fallito nella vita, rubano la speranza anche agli altri e gettano manciate di sconforto «attraverso la tivù, il cinema, i telegiornali e i media in generale». Non ne può più di chi, se si parla di valori, scuote la testa asserendo: «Cose d’altri tempi, oggi purtroppo non più...». Pupi Avati, regista e produttore cinematografico di successo, non ci sta a questo gioco al ribasso: «Qualcuno mi sa spiegare che differenza c’è tra un giovane oggi e quando io ero povero in canna e mia moglie aveva 21 anni, ma c’era l’amore e questo bastava per sposarci e avere i nostri tre figli?».

Nei film e nelle serie televisive racconta imperterrito di famiglie che lottano con i denti ma reggono, di padri che fanno i padri, di donne che fanno le mogli, di amore e fedeltà, di tradimento ma poi di ritorno, di cadute e di riprese, di crisi e di risorse, di figli che nascono e sono una benedizione, di anziani che muoiono e sono rimpianti. Insomma, della vita, la nostra, quella vera. Quella normale. Talmente normale che Avati è oggi considerato un regista trasgressivo, persino coraggioso. Tanto coraggioso da dire chiaro e tondo che «il divorzio non è una conquista, è sempre una sconfitta» (lo ha ribadito qualche sera fa a 'Porta a Porta' zittendo l’avvocato matrimonialista), che i figli è bello averli da giovani, che il 'per sempre' del matrimonio è la più inebriante ed eroica promessa tra chi si ama, anche quando non ci si riesce, che la vita è dura, anzi durissima, ma se ci si stringe tra noi ce la si fa.

Non è uomo che edulcora o la manda a dire, Avati, a partire dal titolo dell’ultima serie televisiva tuttora in onda su Raiuno, 'Un matrimonio': bello schietto, senza giri di parole. Un matrimonio, uno tra tanti, con tutte le tragedie ma anche quel carico di umanità che riscatta le nostre storie personali: nella saga familiare che si dipana dalla Bologna dell’immediato dopoguerra ad oggi, ritroviamo i racconti dei nostri nonni, i ricordi dei genitori, la nostra stessa infanzia, l’Italia che conosciamo, dall’euforia della ricostruzione agli anni di piombo e della contestazione. Cinquant’anni di vicende in cui Avati spende se stesso, ispirandosi al matrimonio dei suoi genitori.

Ma come si spiega il grande successo della serie televisiva (stasera e domani le ultime due puntate), che domenica scorsa ha stravinto sulla concorrenza e ogni sera incolla al video almeno cinque milioni di italiani? Non ci sono scene di sesso (persino nella recente puntata di 'Gli anni spezzati' dedicata su Raiuno al giudice Sossi il nudo era così fuori tema da risultare comico), nessuna relazione omosessuale (non c’è fiction oggi che ci rinunci, banalizzando il tema nel peggiore dei modi), nessuna volgarità, niente parolacce, quale allora il segreto di Avati? Ha il coraggio di dire ciò che la gran parte di noi pensa ma che ci teniamo dentro, perché come dice don Abbondio il coraggio se uno non l’ha non se lo può dare, ed oggi per parlare di valori il coraggio ci vuole.

Ovunque ci giriamo tira aria di pessimismo, la parola d’ordine è rinuncia, il relativismo svuota concetti come verità e diritto, la norma è sovvertita, la fede derisa, la felicità negata, il buon senso preso a calci. Chi osa ancora dire che la famiglia è l’unione di un padre e una madre che si sposano e hanno figli è costretto a ritrattare (Barilla a 'La Zanzara'), ma nessuno scandalo ha suscitato nella stessa trasmissione chi l’altra sera ha inneggiato alla pedofilia (il regista Squitieri che ammetteva il suo sesso con una tredicenne, e delle sue stesse figlie dichiarava «ancora vergini a dodici anni? Disgustoso»).

Questa è l’aria che tira e che ci fanno respirare. Finché non arriva un Pupi Avati, che non giudica e non fa moralismi, ma che dice le cose come stanno e si fa testimone: «Per parlare di matrimonio bisogna conoscerlo da molto tempo, non si può giudicarlo arrivati agli antipasti. E io, sposato da 49 anni, ho mangiato anche il dolce, sono giunto al caffè... non me l’hanno ancora portato».

Lucia Bellaspiga

Re: UNIONI CIVILI a ROMA -Roma 7 del 18 Gen. 2014

MessaggioInviato: gio gen 23, 2014 4:09 pm
da Leonardo
Dualismo sessuale uomo-donna -Avvenire 18 gennaio
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La banalizzazione della differenza

Nel commentare una mia analisi apparsa su "Avvenire" lo scorso 10 dicembre, dedicato al tema delica-tissimo dell’ omogenitorialità, Armando Massarenti, sull’ultimo "Domenicale" del "Sole24 ore" del 2013, registra a mio carico un deficit di informazione e mi dà indicazioni di lettura, di cui non posso che essergli grato, anche se si tratta di pagine da me assimilate da tempo (come è il caso del libro di Remotti "Contro natura", il cui curioso sottotitolo, "Una lettera al Papa", mi aveva indotto a scrivere un commento, apparso sempre su "Avvenire", ma evidentemente sfuggito a Massarenti).

La questione, però, non è chiaramente quella della quantità o della qualità delle mie letture, ma di come una persona, che non voglia lasciarsi travolgere dalle ideologie del politicamente corretto, debba prendere posizione nei confronti delle rivendicazioni coniugali e genitoriali dei gay.

Mi pare di capire che Massarenti prenda per assolutamente consolidata l’opinione dell’Organizzazione mondiale della Sanità, che considera l’omosessualità «una normale variante del comportamento umano» e qui starebbe a me dargli indicazioni di lettura, almeno per mostrare quanto questa non sia una dottrina scientifica rigorosamente fondata, ma una "opinione", dai fragilissimi fondamenti epistemo-logici. Essa infatti riposa sulle risultanze non di adeguate ricerche scientifiche, ma di un curioso questionario che l’Apa, l’American Psychological Association rivolse ai propri iscritti: a tale questionario risposero solo diecimila soci – su un totale di più di centotrentamila – e tra questi diecimila si riscontrò una maggioranza, non strepitosa, del 58% a favore della cancellazione dell’omosessualità dal novero delle patologie).

Peraltro, nell’editoriale cui benevolmente si è riferito Massarenti, non avanzavo affatto questi argomenti per sparare a zero sulla psicologia. Mi interessava, e mi interessa davvero molto di più, richiamare l’attenzione sul fatto che la questione omosessuale va molto al di là del mero terreno della psicologia e possiede una valenza ben più ariosamente antropologica. Massarenti, riducendo l’antropologia a etnologia, sembra non avvertire che la prima dimensione dell’antropologia non è quella etnologica, ma quella filosofica (cosa strana, dato lo spazio che per suo merito la filosofia ha sul "Domenicale").
Capire l’uomo implica percepire il carattere fondativo del dualismo uomo/donna, che non solo condiziona l’auto-interpretazione psicologica dell’io, ma è anche il presupposto dello sviluppo delle sue capacità cognitive: un tema, questo, che è stato molto caro anche ai sociologi, tra cui in particolare Niklas Luhmann.

Il cardine di questo discorso è che l’essere dell’uomo e tutte le sue capacità cognitive sono caratterizzati da un dualismo radicato nella presa di coscienza della differenza sessuale, un dualismo le cui ricadute etnologiche e storiche sono semplicemente sconfinate; un dualismo che, pur producendo come suoi effetti secondari deformazioni di vario tipo (tra cui quello che chiamiamo comunemente il "maschilismo"), ha però reso possibile il distacco radicale dell’uomo dalla sua animalità biologica, consentendo la formazione dei sistemi familiari e, tramite questi, di quelli politici.

Chiedersi se tale dualismo sia antropologicamente superabile, cancellando tutte le istituzioni e combattendo tutte le pratiche sociali "sessuate" equivale a chiedersi se l’uomo possa diventare altro da ciò che è: insomma non è certo questione da affidare agli psicologi o agli etnologi, dato che investe tutte, propriamente tutte, le dimensioni dell’humanum.

Per questo ritengo che la banalizzazione della differenza sessuale, oggi così dilagante nelle culture secolarizzate occidentali, non sia una cosa seria, da un punto di vista antropologico-filosofico e non semplicemente psico-etnologico. Di qui la mia convinzione che non si tratti di un pregiudizio l’idea che non sia un bene per un bambino crescere in un contesto di omoparentalità e soprattutto che non si possa ritenere davvero dimostrata l’opinione contraria, difesa da Massarenti.

A fronte di un’esperienza storica plurimillenaria radicata nell’eterosessualità, nella quale le dinamiche omosessuali rappresentano fenomeni assolutamente di nicchia e generalmente occultati, le esperienze omoparentali che oggi vengono studiate sono almeno quantitativamente ben poca cosa (anche perché non è difficile percepire quanto siano inquinate da atteggiamenti "di favore", essi sì davvero pregiudiziali, che arrivano a sostenere il primato di queste esperienze su quelle eteroparentali!).

Siamo tutti d’accordo (o almeno lo spero) nel difendere il sacrosanto diritto delle persone gay a non essere vittime di alcuna forma di discriminazione (e a maggior ragione di violenza), ma non riesco a considerare una decisione saggia (per riprendere l’espressione di Massarenti) quella di difendere i "diritti dei gay" alterando il carattere eterosessuale che da millenni caratterizza il matrimonio e la famiglia.