27 febbraio 2011 -Avvenire
Il direttore risponde
Saviano, apoftegmi e delusioni
Caro direttore,
mi pare che Roberto Saviano, dopo il meritato successo di "Gomorra", si sia montato la testa. Si dedica ormai a monologhi oracolari inscenati in contesti ossequienti fino alla piaggeria, parla come se largisse il verbo di verità ad accoliti da istruire alla sequela. Ignora l’obiezione, il contraddittorio, il sospetto di essere nel torto. Non argomenta, sentenzia. E lo fa su tutto lo scibile umano, con quella sfrenata propensione alla tuttologia di chi si è ritagliato il ruolo di guru. Qualche amico dovrebbe spiegargli che essere sotto scorta non tramuta in apoftegmi irreprensibili pretenziose concioni dalla sceneggiatura traballante e lacunosa (come quelle di "Vieni via con me" sui – presunti – legami tra Lega e mafie, o sui pochi euro che basterebbe versare ai medici degli ospedali italiani per procurarsi la "dolce morte"). Qualcuno gli infonda il dubbio che sponsorizzare l’eutanasia (senza nominarla) e negare la possibilità di raccontarsi ai disabili gravi sia pusillanimità, e delle più incresciose: non coraggio, non fermezza e coerenza di "linea editoriale". Tacciare il disegno di legge sul fine vita in discussione alla Camera di essere antidemocratico e liberticida – come ha fatto Saviano in un videomessaggio – è adoperare ancora una volta aggettivi a sproposito, deformare la realtà, fare propaganda greve e rozza (l’ha chiarito bene Francesco D’Agostino su "Avvenire" del 22 febbraio scorso), staccare la spina della ragione (come quando l’autore di "Gomorra" asseverò che «quella di Piergiorgio Welby non era più vita»). Una volta di più, Saviano esecra e impugna, scansando la fatica del confronto paziente tra ragioni e idee diverse, accampando la pretesa che lo si approvi per il solo fatto che è lui a pronunciarsi. Spero sinceramente che i suoi fan si destino dall’incantamento e aiutino il loro "precettore" a fare lo stesso. Altrimenti ci toccherà vedere un scrittore promettente avvizzire percorrendo una dopo l’altra le tappe dell’avvilente cursus honorum di un qualsiasi tribuno mediatico. Saluti cordiali.
Alessandro Martinetti, Ghemme (No)
Prima di tutto, caro signor Martinetti, saldiamo un debito con almeno un paio di lettori: un apoftegma è una risposta, un’affermazione o, se si preferisce, un verdetto che ha la pretesa di essere definitivo e, dunque, indiscutibile. E adesso veniamo pure al merito della sua lettera. Purtroppo il rimpianto che lei manifesta è anche il mio e, credo, di non pochi altri. Roberto Saviano, da qualche tempo e su temi delicatissimi, ha preso a sovrapporre sistematicamente ai fatti le proprie opinioni e questo è un peccato. Avevo imparato anch’io ad apprezzarlo per l’incisività e la documentata eloquenza con le quali ha reso impossibile a tutti ignorare la pervasività e la malvagità di quel grumo criminale, anti-comunitario e anti-umano, che viene chiamato "camorra". E ora, invece… La delusione è grande. Lei è, però, così incalzante e così severo che nulla mi sentirei di aggiungere (e sarei, anzi, tentato di chiederle di rinunciare a qualche ideale staffilata…), se non ci fosse un’annotazione che proprio non posso e non voglio evitare. Quando la vicenda umana di Eluana Englaro stava per concludersi e subito dopo la sua terribile morte provocata dalla deliberata sottrazione di acqua e cibo, Saviano affermò come vere cose che vere non erano affatto, a cominciare dalla devastante e distorcente descrizione di Eluana come una povera creatura martoriata, torturata da un groviglio di cavi e fili che la tenevano in vita artificialmente. Niente di più lontano da una realtà di pur gravissima disabilità. Lo so bene che era quel che scrivevano quasi tutti. Ma Saviano non è "quasi tutti". Lui sa che cosa vuol dire informare e, quando è necessario, contro-informare facendo emergere i fatti nudi e crudi a dispetto di ogni manipolazione. Lui sa che un vero cronista e ogni persona pervasa da sana passione civile non mistificano la realtà, ma la propongono e l’affrontano per ciò che è. Lui che cantare slogan nei cori del politicamente corretto, non è un servizio per uomini e donne liberi. E per essere davvero liberi non basta essere coraggiosi, ma bisogna essere lucidi e capaci di mettersi in discussione. Noi di Avvenire, caro amico, continuiamo a provarci. Anche quando si parla di eutanasia. Anche se provano a raccontarci come "dogmatici" e, a nostra volta, come portatori di mere opinioni, magari per non fare la fatica di controbattere ai fatti, ai dati scientifici, alle esperienze di vita e agli argomenti che mettiamo a disposizione della riflessione di tutti senza adeguarci a "verità" preconfezionate. Quelli come lei e come noi chiedono soprattutto una cosa: che si abbia l’onestà di ammettere che non stiamo dibattendo dell’accanimento terapeutico (che qualcuno disperatamente attaccato alla propria esistenza terrena arriva a pretendere, ma che nessuno può difendere) e tantomeno di una "libertà" (la libertà di morire, addirittura!), ma di un verdetto sulla vita, soprattutto su certi "tipi" (imperfetti) di vita e su certe "fasi" (sofferenti) della vita. C’è chi vuole, persino barando, che se ne attesti per legge la "indegnità". Ma noi non ci rassegniamo a simili verdetti. Apoftegmi, appunto, caro Martinetti. E non irreprensibili, ma tetri e mortificanti.
-Marco Tarquinio