REGOLE SEVERE MA SENSO DI GIUSTIZIA
Lo straniero e il cittadino.
Anche chi, come chi scrive, è favorevole alla pratica dei respingimenti e alla sanzione dell’immigrazione clandestina — respingimenti e sanzioni adottati di fatto oltre che dall'Italia anche dalla Francia e dalla Spagna, cioè dai Paesi che rappresentano i 4/5 del confine mediterraneo dell'Unione Europea — non può ovviamente pensare che sia solo con questi mezzi che vada affrontato il fenomeno migratorio. Insomma, è necessario, sì, cercare di arginare e legalizzare i flussi degli arrivi, ma insieme (sottolineo: insieme) è necessario sia accogliere civilmente chi viene in Italia sia promuoverne al massimo l'integrazione. Fino a dargli la possibilità, se vuole, di diventare italiano.
Per due ragioni fondamentali: da un lato per il forte calo demografico che incombe sulla penisola, con in prospettiva la conseguente perdita di vitalità economica e non solo; dall'altro per la necessità di attenuare il più possibile il potenziale di anomia, di disordine e di vera e propria illegalità che si accompagna fisiologicamente al fenomeno migratorio. La prospettiva di diventare cittadino a pieno titolo del nuovo Paese costituisce un potente incentivo psicologico a osservarne le leggi, impararne la lingua, guardarne con simpatia i costumi e la storia.
Finora, però, diventare italiano è stato, per uno straniero, difficilissimo. Noi, infatti, abbiamo una legge sulla cittadinanza che è quanto mai restrittiva nei confronti di chi non può vantare almeno un genitore o un coniuge italiano ma solo la semplice residenza. Basti dire che in un anno tipo, come il 2005, non solo le concessioni della cittadinanza italiana sono state meno di ventimila contro le 154 mila della Francia e le 117 mila della Germania, ma che circa i 4/5 di tali concessioni sono avvenute per matrimonio e non per residenza.
Dunque, chi vuole realmente cercare di integrare gli immigrati — e, aggiungerei, chi crede davvero nei valori umani, culturali e politici dell'Italia, e dunque nella loro reale capacità di attrazione verso gli estranei — non può che mirare ad allargare la legge sulla cittadinanza. Ed è per l'appunto questo l’obiettivo meritorio della proposta di legge appena presentata alla Camera dai deputati da Andrea Sarubbi e Fabio Granata. Secondo la quale, innanzitutto, d'ora in avanti potranno diventare automaticamente cittadini italiani due categorie di soggetti: a) chi nasce in Italia da un genitore ivi legalmente soggiornante da almeno cinque anni; b) lo straniero nato in Italia o che vi è arrivato prima di aver compiuto i cinque anni di età e vi ha legalmente soggiornato fino alla maggiore età. Può da ultimo diventare cittadino italiano, su richiesta, anche qualunque minore straniero che abbia completato con successo un corso d’istruzione scolastico, anche primaria o di formazione professionale, presso un istituto italiano. Si vuole favorire, insomma, la possibilità per qualunque giovane straniero, immerso di fatto fin dall’inizio della sua vita nella cultura italiana, di diventare italiano a tutti gli effetti, e dunque di non sentirsi diverso o addirittura in una posizione d'inferiorità rispetto ai suoi coetanei.
Non basta. L’altra grande novità della proposta riguarda gli stranieri adulti. Essa consiste nella riduzione da dieci a cinque anni del periodo di tempo necessario per ottenere la cittadinanza. Ma a un’importante condizione: l’accertamento in un colloquio della conoscenza dell’italiano nonché della «vita civile dell’Italia e della Costituzione».
Questa, a grandi linee, la proposta di legge. Naturalmente alcuni aspetti andranno meglio messi a fuoco: per esempio, il livello A2 richiesto per la conoscenza dell’italiano è probabilmente un livello troppo elementare, così come bisognerebbe fare in modo, già nella lettera della legge, che l’accertamento della conoscenza anzidetta e quello della cultura e della Costituzione italiane non obbediscano all’andazzo permissivistico che l’ambiente politico-burocratico nostrano adotta troppo spesso in casi simili.
Ma l’importante è che si sia imboccata la strada giusta e nel modo giusto. Cioè con un testo frutto del lavoro congiunto di un rappresentante della maggioranza e di uno dell’opposizione, come sono per l’appunto Sarubbi e Granata.
E’ vero che proprio per questo l’inguaribile retroscenismo nazionale ha già battezzato la proposta in questione «la legge di Fini», considerandola una sorta di ballon d'essai del supposto trasversalismo politico del presidente della Camera.
A costo però di apparire fin troppo ingenui, a noi piace pensare che non sia così. Ci piace credere, più semplicemente, che, poiché circa il modo come si diventa cittadini della Repubblica è bene che siano d’accordo il maggior numero d’italiani, una volta tanto esponenti della destra e sinistra lo abbiano capito, e una volta tanto abbiano agito di conseguenza.
Ernesto Galli della Loggia