Amore ed Ecumenismo: un criterio di verità

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Amore ed Ecumenismo: un criterio di verità

Messaggioda geodea » gio apr 12, 2007 8:22 am

Fulvio Ferrario, “L’amore come criterio di verità nell’ecumenismo”, in Teologia e preghiera, Claudiana, Torino 2004, pp. 213-226.

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L’AMORE COME CRITERIO DI VERITÀ DELL’ECUMENISMO.
TRINITÀ E CHIESA


Poche parole come «amore» sono portatrici di significati diversi, spesso assai distanti tra loro; poche parole, dunque, sono altrettanto difficili da utilizzare in modo realmente costruttivo. Dall’altra parte, per quanto riguarda il linguaggio della fede, si deve anche dire che poche parole sono altrettanto indispensabili. Se la tradizione giovannea non teme di affermare, in modo sintetico e diretto, che «Dio e amore», parlare di lui significa parlare dell’amore: i contenuti, tuttavia, sono liberati dal carico di equivocità normalmente associato alla parola, ad opera della rivelazione: il contenuto della parola amore, in linguaggio cristiano, è definito dalla persona e dalla storia di Gesù Cristo. Confessando che in Cristo la parola si è fatta carne, la fede afferma che l’identità di Dio non è cristianamente esprimibile indipendentemente dal nome di Gesù. Dire che Dio è amore significa dire che Dio è come è Gesù. La persona e la storia di Gesù sono il criterio primo e ultimo del nostro parlare di Dio e, più radicalmente, del nostro credere in Dio. Il primo elemento del nostro tema risulta dunque così precisato: si tratta di cogliere in che senso l’amore di Dio incarnato in Gesù Cristo è criterio dell’ecumenismo.
Anche il secondo elemento, l’ecumenismo, richiede di essere messo a fuoco. Non ne parlerò come di un settore di attività o di riflessione della chiesa ma, semplicemente, come il modo di essere della chiesa confessata come «una, santa, cattolica e apostolica». Il mio sarà un discorso confessionale, nel senso che non posso e non voglio uscire dalla mia pelle, che è quella di un cristiano evangelico. Tuttavia anche un discorso identificato confessionalmente, se vuol essere cristiano, può solo essere ecumenico, poiché le identità confessionali mantengono un senso cristiano solo nel quadro della confessione dell’unità della chiesa. Parlare di ecumenismo, quindi, significa qui parlare della chiesa, dell’unica chiesa di Dio. L’amore come criterio di verità della chiesa, dunque: su questo cercherò di riflettere e, per farlo, prenderò le mosse dal grande tentativo teologico svolto dalla chiesa cristiana per dire l’amore di Dio, cioè quello di parlare di Dio come Trinità.


CENTRALITÀ NUOVA E ANTICA DEL PENSARE TRINITARIO

È stato soprattutto il dialogo ecumenico con l’Ortodossia a riportare al centro della riflessione teologica cattolica e protestante il pensare trinitario come grammatica del discorso teologico. Naturalmente la dottrina trinitaria non è mai stata dimenticata in Occidente e non sarebbe difficile mostrarne la centralità in tutti i grandi dottori della chiesa. È comunemente riconosciuto, tuttavia, che la spiritualità, il modo di essere chiesa e quindi anche la teologia occidentali si sono sviluppati secondo schemi rispetto ai quali il dogma trinitario non ha sempre svolto una funzione costitutiva e determinante. Semplificando un poco, si potrebbe affermare che i contenuti fondamentali della fede sono stati espressi prevalentemente a partire dal Padre, dal Figlio e dal loro rapporto; successivamente, il dogma trinitario è stato inquadrato in un impianto teologico sostanzialmente già determinato nei suoi lineamenti fondamentali. Evidentemente questa dinamica è legata a un’obiettiva sottovalutazione del ruolo (ma molti, più radicalmente, affermano: della Persona) dello Spirito santo. La disputa tra Oriente e Occidente relativa alla questione del rapporto dello Spirito in particolare con il Figlio (Filioque) costituisce notoriamente il più clamoroso punto di catalizzazione di questo tipo di sensibilità teologica e delle sue conseguenze conflittuali.
Già prima dello sviluppo del dialogo ecumenico su vasta scala, almeno alcuni teologi occidentali si sono resi conto della necessità di ridefinire l’importanza costitutiva del dogma trinitario nel quadro della teologia cristiana e credo vadano ricordati, in rappresentanza delle due grandi tradizioni occidentali, almeno i nomi di Karl Barth e Karl Rahner: entrambi gli autori, tra l’altro, sottolineano la necessità, oggi ampiamente condivisa, di relativizzare con decisione il rilievo teologico della distinzione tra Trinità «immanente» (il Dio trinitario com’è «in sé», nella sua realtà comunionale) e Trinità «economica» (il Dio trinitario come si manifesta nella rivelazione). Per la fede e la teologia è decisivo affermare che nella rivelazione si comunica la realtà stessa di Dio, così come essa è, sicché la Trinità «economica» non va intesa come altra rispetto a quella «immanente». È vero tuttavia che solo negli ultimi trenta - trentacinque anni del secolo scorso la teologia occidentale riscopre massicciamente le potenzialità di una vera e propria rigenerazione trinitaria della propria riflessione e questo accade, ribadiamolo, nel quadro del dialogo ecumenico con l’Ortodossia. Non si tratta semplicemente di ampliare, nelle dogmatiche, la parte riservata alla Trinità, né di moltiplicare i riferimenti trinitari (benché spesso si osservi una tale deriva retorica) ma di pensare trinitariamente la fede nella sua globalità. Dal punto di vista tecnico, il passo decisivo risiede probabilmente nel modo stesso di impostare la riflessione su Dio. Una certa tradizione inizia con parlando del Dio Uno, cercando poi di spiegare, a volte non senza un certo affanno, come questo Dio Uno sia anche Trino. In tal modo il linguaggio trinitario è già in partenza inquadrato in una modalità data (in un certo senso; ritengono alcuni, precristiana) di pensare Dio. C’è, se così si può dire, un primato dell’unità di Dio, che limita in partenza la potenzialità della dimensione trinitaria della rivelazione.
La nuova sensibilità favorita dal dialogo ecumenico permette ora anche alla teologia occidentale di recuperare quanto l’Oriente ha costantemente sottolineato con forza: il fatto che Dio sia «uno» non è semplicemente la variante cristiana di forme precedenti di «monoteismo», ma l’evento della comunione tra le tre Persone della Trinità. Quella di Dio non è un’unità in qualche modo «metafisicamente data» e statica: Dio è uno nell’evento d’amore (appunto) costituito dalla comunione dinamica dei tre. Unità di Dio significa che il contenuto della parola Padre si può determinare solo a partire dalla realtà del Figlio e di quella dello Spirito; e così, in piena, benché qualificata, reciprocità, per le altre due; ognuna delle Persone trinitarie, cioè, è se stessa solo nel rapporto con le altre. L’essere di Dio non «precede» astrattamente le Persone, ma si identifica con il loro rapporto di amore comunionale, con il fatto che ogni persona esiste solo nel rapporto con le altre. L’«essere di Dio è nel divenire», afferma Eberhard Jüngel, attingendo a Karl Barth. Come si dirà più ampiamente in seguito, non in un divenire metafisicamente necessario, ma in quello del libero evento di comunione che lega tra loro il Padre, il Figlio e lo Spirito. Li lega in modo tale che nessuna Persona è se stessa senza le altre; e dall’altra parte, il rapporto con le altre non dissolve l’identità di ciascuna Persona, ma la realizza, appunto come identità aperta, comunionale.
Non si tratta, già lo abbiamo detto, di una scoperta. La teologia cristiana parla tradizionalmente di «pericoresi» (latino: circumincessio): ogni persona trinitaria «è» solo con le altre e anzi è «nelle» altre, in un rapporto di perfetta compenetrazione, Con il suo complesso e a tratti disorientante linguaggio, la teologia trinitaria intende affermare che Dio è nel suo stesso essere afflato d’amore, volontà di dono, e dunque di rapporto. Da sempre e per sempre Dio è «in», «per» e «con», perché il suo essere è comunionale.


TRINITÀ COME ESEGESI DELLA PERSONA E DELLA STORIA DI GESÙ

Nell’entusiasmo per la riscoperta della centralità del dogma trinitario (e, parallelamente, della dimensione pneumatologica della fede), molta teologia recente si permette formulazioni a dir poco superficiali: in particolare si afferma da più parti l’esigenza di superare, mediante queste diverse accentuazioni, un’enfasi eccessiva sulla persona di Gesù e sulla cristologia, enfasi che viene considerata una specie di peccato, se non originale certo molto antico, della teologia occidentale, e a volte sbrigativamente definita, con espressione infelicissima, «cristomonismo». Sarebbe stata, cioè, l’eccessiva concentrazione su Gesù a determinare l’oblio del pensare trinitario e dunque una teologia e una prassi ecclesiale non comunionali, ma tendenzialmente verticistiche (e, aggiungono molte teologhe femministe, maschiliste): un Dio unico maschile, un redentore maschio, una chiesa nella quale l’autorità si esplica in chiave individualista dall’alto in basso; in politica, poi, un imperatore da una parte e una massa di sudditi dall’altra.
Su questo punto occorre ricordare che, storicamente, la teologia trinitaria si sviluppa non contro la cristologia, bensì a partire da essa. Che cosa significa dire che «Dio era in Cristo» e che, anzi, Cristo è il Verbo di Dio e, addirittura, è Dio? Questa è la domanda che obbliga la chiesa antica a pensare Dio trinitariamente. Sul piano della storia del dogma non è affatto un’esagerazione dire che credere, pregare e pensare Dio come Trinità costituisce l’interpretazione radicale della figura di Gesù così come il Nuovo Testamento la presenta. Contrapporre, anche solo a scopo di chiarezza espositiva, centralità della cristologia da un lato e pensare trinitario dall’altro è un errore pericoloso, perché rischia di separare il discorso cristiano sulla Trinità dalla concretezza della rivelazione, facendone una speculazione metafisica, in sé e per sé non meno astratta del cosiddetto monoteismo atrinitano.
È giusto aggiungere, in questo contesto, che la riscoperta occidentale della centralità del dogma trinitario si lega, non a caso, al rinnovamento della cristologia che ha seguito il poderoso sviluppo della ricerca biblica negli ultimi secoli. Tale complesso, tempestoso processo ci ha insegnato in forma nuova quanto non avrebbe mai dovuto essere dimenticato: che cioè il Figlio incarnato non è un altro rispetto al figlio del falegname che percorre le strade della Palestina annunciando, senza deleghe né titoli accademici o religiosi, la prossimità del Regno di Dio, per poi morire crocifisso fuori dalle porte della città santa. La ricerca biblica e la riflessione cristologica degli ultimi secoli ci hanno nuovamente ricordato l’identità paradossale tra il Figlio eterno e il Crocifisso, ucciso perché si schiera dalla parte degli ultimi e delle ultime, dei peccatori e delle peccatrici. Il dogma trinitario afferma che Dio è comunione. Alla luce della storia del Crocifisso risorto, tale comunione non può più essere compresa trionfalisticamente o speculativamente, come «sintesi dialettica degli opposti»; l’amore comunionale si rivela come modo di essere di un Dio che esiste nel suo donarsi. Ma non in un dono che, nel suo essere puramente celeste, fatalmente finisce per essere presentato in modo astratto e irreale; al contrario, si tratta del donarsi radicalmente sofferto e sofferente del Crocifisso. Trinità significa che il Crocifisso rivela l’identità di Dio da prima che il mondo fosse. Trinità significa che non esiste un altro Dio rispetto a quello che si rivela nel Crocifisso. Secondo molti, che direttamente o meno dipendono da Karl Barth, Trinità significa inoltre che non esiste un Dio «nascosto», «al di là» di quello rivelato nel Crocifisso: se il Verbo prende carne in Gesù e se il Verbo è «totalmente» nel Padre e nel Figlio nella dinamica comunionale della Trinità, quello rivelato in Cristo è veramente l’unico Dio e non esiste una volontà di Dio diversa o ulteriore rispetto a quella che si presenta nell’uomo di Nazareth. Il pensare trinitario costituisce dunque, proprio come insegna la storia della teologia cristiana, l’esito ultimo di una cristologia fedele alla totalità della testimonianza neotestamentaria. Il Nuovo Testamento mette in luce da un lato che l’amore comunionale vissuto da Gesù è la scelta di campo di chi attende che gli ultimi diventino primi e i primi ultimi; di chi sa che i pubblicani e le prostitute precederanno, nel Regno dei cieli, le persone religiose, i gerarchi ecclesiastici e, sospetto, anche i teologi; di chi non abolisce la Torah e anzi la riafferma, ma rifiuta di condannare l’adultera in nome della Torah e, miracolo dei miracoli, convince gli uomini della Torah a fare altrettanto (benché, a quanto pare, non ci sia riuscito con gli uomini della chiesa «cristiana»); è lo stesso amore «politico», nel senso più radicale del termine, del Dio dell’Esodo e dei profeti. Dall’altra parte, la parola neotestamentaria afferma con tutta la chiarezza possibile, che la prassi storica di Gesù esprime l’essere eterno di Dio e dunque costituisce il contenuto rivelato della parola «amore». La comunione trinitaria, il reciproco essere «in», «con» e «per» delle tre Persone, esprime il volto di Dio, la sua dedizione infinita, il suo amore, la sua realtà prima e ultima. Essa era da prima che il mondo fosse e nella storia della salvezza coinvolge l’umanità e la creazione intera: non in modo indifferenziato, cancellando il dramma e la colpa, ma in modo critico. La croce di Gesù è evangelo, grazia, sì incondizionato di Dio all’essere umano peccatore: e in quanto tale è anche giudizio. In tale prospettiva la teologia cristiana è consapevole che l’essere di Dio, nell’eterno divenire della comunione trinitaria, comprende il sé il dolore e la morte e, assumendoli, li redime.


IL DIO CHE AMA NELLA LIBERTÀ

Il reciproco essere «in», «con» e «per» delle tre Persone è dunque il modo di essere di Dio, dall’eternità e per l’eternità. La persona e la vicenda di Gesù, tuttavia, testimoniano che tale dedizione è sempre di nuovo «scelta»: la storia trinitaria di Dio e la sua storia con l’umanità non si svolgono nella dimensione della necessità metafisica, ma in quella della libertà. Dio sceglie di essere dono, il suo amore abita nella dimensione della libertà. Questa è la particella di verità contenuta nella domanda, di per sé astratta: Dio avrebbe potuto non creare il mondo? E, una volta creatolo, avrebbe potuto non incarnarsi, non sperimentare la morte nella croce di Gesù, non vivere il rifiuto e l’incredulità, non continuare a farsi carico del peccato nella forte e paziente debolezza dello Spirito? La domanda, dicevamo, è astratta, perché non si dà parlare di Dio se non a partire dalla realtà fattuale della rivelazione nella storia, che è quella che è e non un’altra. Tuttavia il quesito esprime la coscienza del fatto che la storia d’amore che è l’essere stesso di Dio non è l’esplicarsi meccanico di un’essenza (come, per fare l’esempio consueto, nel divenire dialettico dell’Idea hegeliana, che si fa altro da sé per ricomprendersi nello Spirito e nella quale la libertà è semplicemente consapevolezza della necessità), ma l’espressione di una volontà amante, che sceglie se stessa e il proprio oggetto. Dio è così perché vuole esserlo, vuole essere come è Gesù.
L’essere di Dio come amore porta con sé una caratteristica debolezza. L’amore si offre, non si impone; non si impone perché non vuole imporsi; ma non lo vuole perché, facendolo, cesserebbe di essere amore. Il darsi di Dio, frutto di libertà, può essere accolto solo dalla libertà. Il Dio di Gesù non obbliga nessuno a credere, in alcun senso. Gesù si presenta senza potere, l’autorità della sua parola è tutta nella sua persona e nella parola stessa che con tale persona si identifica, non ci sono puntelli esterni che ne favoriscano l’accoglienza. Non puntelli «politici», che costringano ad accogliere la parola sotto pena di sanzioni sociali; ma nemmeno puntelli «teorici», che dimostrino dall’esterno la verità e la pertinenza della parola. Esse sono tutte nell’«amen» che l’accompagna: anzitutto nell’amen di Dio stesso, che fa che la parola «diventi vera» e, subordinatamente, nell’amen della fede che l’accoglie.
La modernità ci ha spiegato, con tutta la chiarezza desiderabile, che Dio «non è necessario», che cioè il mondo sembra funzionare più o meno bene anche senza «l’ipotesi di lavoro Dio». È possibile essere persone ragionevoli senza credere in Dio. L’apologetica cristiana si è sempre trovata a disagio nei confronti di questo esito della parabola culturale dell’Occidente e ha cercato, senza molto successo, di demolirla, rimanendo pertinacemente attaccata all’infausta figura di pensiero che Bonhoeffer chiama del «Dio tappabuchi»: un Dio che entra in ballo quando le risorse umane sono allo stremo, per poi venire cacciato sempre più in là dall’avanzare della consapevolezza critica umana, in una costante e ingloriosa ritirata. Da parte sua, la cultura «laica» ha ritenuto di dover trarre la conclusione che un Dio «non necessario» sia, semplicemente «superfluo», vuoto di contenuto e dunque, semplicemente, inesistente. La rivelazione afferma invece che il Dio di Gesù Cristo non si lascia inscrivere nella dimensione della necessità non perché ne sia al di sotto (superfluo, appunto), ma perché è «più che necessario», cioè travalica la sfera della necessità, nella libertà del suo donarsi: nella gratuità. L’essere di Dio è grazia e dunque Dio si comunica non per necessità (sia essa «politica» o logica) ma per sovrabbondanza d’amore. Dio è «gratuito», non si impone ma si offre, non vuole né può essere subito, ma solo accolto. Alla gratuità di Dio corrisponde la gratitudine delle creature. La storia trinitaria di Dio vive nella libertà e nella gratuità che si manifestano in Gesù. Questo è l’amore sovrabbondante che costituisce il criterio dell’essere chiesa, e dunque anche dell’ecumenismo.
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Messaggioda berescitte » sab apr 14, 2007 8:55 am

Grazie!
è roba che non va solo letta ma meditata e se qualcuno ha problemi di comprensione anche spiegata. Siamo in piena area di "addetti ai lavori" ed è supponibile che per lettori "non iniziati" ci siano delle difficoltà. Ma noi siamo qui...

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