Redalie’ Y, “Unità e diversità nel Nuovo Testamento”, saggio

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Redalie’ Y, “Unità e diversità nel Nuovo Testamento”, saggio

Messaggioda geodea » gio apr 12, 2007 8:13 am

Redalie’ Y, “Unità e diversità nel Nuovo Testamento”, in Penna R. (a cura di), Le origini del cristianesimo, Carocci editore, Roma 2004.

8
Unità e diversità nel Nuovo Testamento:
fecondità di una dialettica


8.1
Un monolite caduto dal cielo?

All’improvviso, dal cielo, un monolite grigio argento, perfetto. Sotto, affascinati, uomini preistorici esprimono la loro meraviglia con gesti di entusiasmo. La scena iniziale del film di Stanley Kubrik 2001 Odissea nello spazio esprime forse una nostalgia profonda dell’umanità: ricevere in modo evidente e senza intermediari una rivelazione di origine celeste, una rivelazione di verità divina.
Anche il Nuovo Testamento in vari passi si riferisce a una rivelazione: «Dio, dopo aver parlato in antico molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Ebr 1,1 s.); «Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli diede per mostrare ai suoi servi le cose che devono avvenire tra breve, e che egli ha fatto conoscere mandando il suo angelo al suo servo Giovanni. Egli ha attestato come parola di Dio e testimonianza di Gesù Cristo tutto ciò che ha visto» (Ap 1,1 s.); «Nessuno ha mai visto Dio, l’unigenito figlio, che è nel seno del padre, è quello che l’ha fatto conoscere» (Gv 1,18); «Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato [...] noi [...] ne rendiamo testimonianza» (I Gv 1,1 s.); «Dio che mi aveva prescelto fin dal seno di mia madre [...] si compiacque di rivelare in me il figlio suo perché io lo annunziassi fra le nazioni. Allora io non mi consigliai con nessun uomo...» (Gal 1,15 s.).
Eppure, anche se di rivelazione si tratta, il Nuovo Testamento non è un monolite fatto di un solo pezzo, e non è caduto dal cielo. Partendo dall’ultima citazione, quella della vocazione di Paolo, si nota che la rivelazione del figlio avviene in Paolo per essere annunciata. Da subito c’è tensione tra l’origine divina dell’incontro, che s’iscrive nel piano di Dio, e la missione dell’apostolo, che deve trasmettere questa rivelazione ai gentili. Questa bipolarità si ritrova all’inizio dell’Apocalisse: è a Giovanni che viene dato di “vedere” la parola di Dio, e lui deve testimoniare, ne scriverà il libro. Anche l’autore di I Gv testimonierà di ciò che ha udito, visto e contemplato. La rivelazione non è diretta, passa attraverso delle testimonianze che la proclamano.
Il vangelo e l’apostolo. Questa articolazione della rivelazione e della storia è specifica della fede cristiana. Il vangelo è evento fondatore, e nello stesso tempo il vangelo è buona novella, messaggio predicato, narrato. Se la rivelazione di Dio in Cristo è evento originario, questo vangelo deve essere annunciato da inviati, testimoni e apostoli. Questa struttura si ritrova, in modo diverso, dovunque nel Nuovo Testamento. In Gv 1,18, l’unigenito figlio nel seno del padre che lo fa conoscere è l’evento del vangelo, la relazione dal figlio al discepolo beneamato, espressa negli stessi termini - «chinato sul suo petto» (13,25) -, che mette in moto la responsabilità dei testimoni, degli apostoli. Se Paolo chiede ai corinzi di imitarlo è perché lui stesso è imitatore di Cristo (I Cor 11,1). Il vangelo e gli apostoli è il dittico proposto dall’opera di Luca (vangelo e Atti degli apostoli), ed è anche questa bipartizione - i vangeli e gli apostoli (Atti ed epistole) - che struttura il canone del Nuovo Testamento.
Diversità e unità nel Nuovo Testamento rispondono a questa bipolarità. Il Nuovo Testamento è plurale, fatto di varie voci, di scritti diversi tra loro nella forma e nell’intento, intessuti di testimonianze multiple, rivolte a comunità differenti tra loro, distinte nel tempo e nella geografia. Eppure attraverso questa diversità, attraverso questo spessore storico, si esprime una tensione che mette queste testimonianze e questi scritti in una relazione di appartenenza reciproca, sempre più esplicitata nel corso dei primi decenni della cristianità e riconosciuta dalle diverse comunità fino a dar luogo all’elaborazione del canone del Nuovo Testamento sin dalla seconda metà del II secolo. Come appare già dai pochi testi sopra citati, questa tensione unitaria si focalizza sullo scandagliare il mistero di Gesù Cristo, “unigenito”, “figlio suo” ecc., sull’evento originario rivelato in Gesù di Nazaret, indicato come accesso alla rivelazione di Dio.


8.2
«Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione...»

Diversità e unità nel prologo di Luca: «Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione degli eventi compiuti tra noi, come ce li hanno tramandati quelli che da principio ne furono testimoni oculari e che divennero ministri della parola, è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa fin dall’origine, di scrivertene per ordine, egregio Teofilo, affinché tu riconosca la certezza delle cose che ti sono state insegnate» (Lc 1,1-4).
Spessore storico e pluralità da un lato, intento unificante dall’altro, il prologo del vangelo di Luca, che segnala «molti» predecessori, offre una buona entrata in questa materia. Per la prima volta, nei materiali della tradizione evangelica, appare l’io dell’autore - «è parso bene anche a me» (3) - che, seguendo la tradizione letteraria greca degli autori di opere storiografiche o di trattati scientifici, indica in un prologo3, oltre alla dedica, l’intenzione dell’opera, il metodo e i criteri adottati, nonché i tipi di materiali disponibili e suscettibili di essere usati come fonti. L’opera di Luca si presenta come un insegnamento di secondo livello, non tanto per informare l’«egregio Teofilo», che ha già ricevuto un insegnamento sulla vicenda di Gesù (katechéthes: 4), ma per confermare la validità della predicazione evangelica con una ricerca accurata dei fatti. Si tratta di rendere sicura (aspháleia, «certezza», 4) la conoscenza di Teofilo, eventualmente completarla o addirittura correggerla.
Il prologo evidenzia cinque momenti costitutivi nella formazione dell’opera di Luca. Prima di tutto ci sono gli «eventi compiuti tra noi». L’espressione usata iscrive Luca, i suoi predecessori, il suo destinatario e i suoi lettori nell’appartenenza comune a una tradizione di fede per la quale gli avvenimenti narrati sono anche realizzazione della volontà di Dio. Questa tensione tra la pluralità dei fatti e la prospettiva unificante del compimento la ritroviamo nei due momenti successivi, quelli delle testimonianze dei «testimoni oculari» diventati poi «ministri della parola». Nel tempo delle tradizioni orali, i fatti visibili e accertati nella loro diversità sono stati tramandati nei diversi momenti della comunicazione apostolica e ministeriale, predicazione, catechesi, controversie ecc., comunicazioni comunque convergenti in quanto trasmesse da ministri «della parola». Poi, ed è il quarto momento, Luca prende in conto le redazioni scritte da parte dei numerosi autori che hanno già dato una forma a queste relazioni. Tra le fonti usate da Luca conosciamo il vangelo di Marco, la fonte dei detti (dei lógia, identificata dalla sigla Q), comune a Matteo e a Luca appunto, e probabilmente una o più fonti da cui Luca trae il materiale che gli è proprio. Infine, Luca presenta la propria redazione, che colloca tra quelle dei suoi predecessori, motivandola in quanto più curata nello stile e nell’organizzazione, più completa e meglio informata.
Il prologo riflette la tensione tra diversità e unità, iscritta nella bipolarità del vangelo e dell’apostolo. Da un lato Cristo e gli apostoli sono associati nell’intima relazione degli «avvenimenti compiuti» con i loro «testimoni oculari», distinti dai credenti ulteriori e anche dagli evangelisti. Dall’altro, però, se il Cristo si colloca dal lato degli avvenimenti compiutisi, gli apostoli invece, diventati poi “ministri della parola”, stanno da quello della proclamazione.
La diversità caratterizza le condizioni del lavoro dell’autore. Nasce dallo scarto tra gli avvenimenti e le testimonianze e cresce con l’allontanamento nel tempo. Quando Luca mette mano alla sua opera, verisimilmente negli ultimi decenni del I secolo, cosciente della distanza che lo separa dagli avvenimenti che intende raccontare, riconosce il valore insostituibile dei testimoni oculari, la cui testimonianza si è tramandata oralmente nella predicazione; sembra più critico verso i suoi “numerosi” predecessori, redattori di narrazioni articolate (cioè scritte), e benché si consideri un loro collega esprime la pretesa di fare meglio e più di loro.
La prospettiva dell’unità è però presente a ogni passo: i fatti sono «compiuti tra noi», le promesse di Dio sono diventate realtà nella vicenda di Gesù, questo è il vangelo; le tradizioni sono tramandate da ministri «della parola». Ma Luca, il teologo, esprime anche la problematica dell’unità con le competenze specifiche dello storico. Sarà sua premura vagliare l’integrità delle testimonianze, delle fonti. A garanzia del suo progetto espone il suo metodo con quattro espressioni (3): dall’origine (ánothen), in modo esaustivo (pâsin), con accuratezza (akribôs), nell’ordine (kathexês). La precisione e l’esaustività, garantite dalla deontologia dello storico, servono a fortificare la fede insegnata, ad assicurarla con una base solida e affidabile.
In relazione al nostro argomento, il movimento del prologo di Luca indica con forza un programma che porta l’egregio Teofilo, e con lui ogni suo lettore, dalla pluralità delle narrazioni («molti», polloí, primo termine del testo greco), alla certezza (aspháleia) dell’insegnamento ricevuto, ultima parola di questa prefazione.


8.3
«Molti altri segni, che non sono scritti in questo libro». Diversità e unità a conclusione del vangelo di Giovanni

Se in Luca l’io dell’autore si incontra all’inizio, in Giovanni il “voi” dei lettori viene interpellato a conclusione del racconto. In due passi conclusivi del quarto vangelo vengono proposte delle riflessioni sul libro che si chiude.
Gv 20,30-31 consegna il vangelo ai suoi lettori come un libro che chiama alla fede, e così facendo dà la vita. Così si enuncia l’intenzione con la quale è stato scritto il vangelo: «Ora Gesù fece in presenza dei discepoli molti altri segni, che non sono scritti in questo libro; ma queste cose sono state scritte, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio, e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome». Come Luca, l’autore del quarto vangelo indica che aveva molti racconti a disposizione. Diversamente da Luca, però, non mette l’accento sul carattere esaustivo della sua opera («molti [...] non sono scritti in questo libro»), ma piuttosto sul criterio adoperato per scegliere tra i segni di Gesù quelli più significativi. Il criterio è teologico: ciò che porta alla fede in Cristo, e di conseguenza alla «vita nel suo nome». Una sorta di “canone nel canone” guida la scelta nella pluralità e nella diversità delle fonti disponibili e dà all’opera la sua unità d’intento e al lettore una chiave di interpretazione.
Il capitolo 21 del quarto vangelo viene considerato dalla critica come un epilogo, aggiunto in un secondo tempo da un redattore che ne propone l’ultima revisione. Quest’ultimo capitolo si conclude con una sorta di riequilibrio ecclesiastico: dopo che le comunità giovannee sono entrate in relazione con altre comunità dove la figura di Pietro è centrale, si cerca di collocare l’uno in rapporto all’altro Pietro e il «discepolo che Gesù amava», figura di riferimento per il quarto vangelo. Di per sé l’intento è ecumenico e si colloca in uno sforzo di unità tra le diverse tradizioni del primo cristianesimo. Dopo un ultimo dialogo tra Gesù e Pietro a proposito di questo discepolo (Gv 21,20-23), il testo prosegue: «Questo è il discepolo che rende testimonianza di queste cose, e che ha scritto queste cose; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Ora vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha fatto; se si scrivessero a una a una, credo che il mondo stesso non potrebbe contenere i libri che se ne scriverebbero» (Gv 21,24-25).
L’autore si sdoppia: il “secondo autore”, che enuncia il «noi sappiamo», esprime una valutazione di autenticità sull’opera che attribuisce appunto al «discepolo che Gesù amava», il quale ha scritto queste cose. Eppure, anche se l’evangelista è prestigioso, il suo testo è stato riscritto per adattarlo ai bisogni del momento. Ritroviamo poi l’idea, già espressa prima, che i fatti raccontati nello scritto costituiscono una scelta operata in una massa che sembra addirittura crescere a dismisura. Il bisogno di scrivere, di fissare, nasce anche dalla necessità di limitare un’esuberanza narrativa che minaccia la “verità” del racconto. Questa verità è d’altronde garantita dal legame con il testimone, egli stesso presentato come autore del vangelo.


8.4
Diversità nella situazione, unità nel progetto?

Le due testimonianze della tradizione evangelica (Luca e Giovanni) sono ricche di indicazioni relative al nostro argomento. Prima di tutto la questione della diversità e dell’unità non è solo un interrogativo moderno nato sulla scia del movimento ecumenico, ma è già coscientemente riflessa al momento della redazione dei vangeli. Il vangelo non si comunica direttamente, non c’è accesso immediato. C’è sempre il vangelo e l’apostolo, il testimone oculare diventato predicatore, il discepolo che Gesù amava la cui testimonianza è veritiera. La diversità nasce da lì, dalle testimonianze, plurali perché umane.
Si delineano poi due direttrici nella diversità. In primo luogo verticalmente: secondo la distanza temporale rispetto ai fatti raccontati (compimenti, segni), la diversità si concretizza nelle diverse tappe, fonti, redazioni (i diversi momenti per Lc 1,1-4; lo sdoppiamento degli autori in Gv 21), sulle quali si esercita il giudizio di affidabilità (verità, certezza). Orizzontalmente, poi, nella contemporaneità delle testimonianze e degli autori, la pluralità cresce: ecco i molti narratori attivi di Luca e il crescendo nel passaggio da Gv 20 a Gv 21, che segnala il carattere incontenibile del moltiplicarsi dei racconti su Gesù, non tutti però dello stesso valore. Si evidenzia già la questione della limitazione posta a questa esuberanza, che maturerà con la formazione del canone. Quali testi scegliere? Con quale criterio? Oppure: come inquadrare l’insieme?
Sia il testo di Luca che quelli di Giovanni constatano la pluralità delle testimonianze come un dato di fatto e mirano a una prospettiva unificante come progetto. Fa anche parte del progetto il preteso riconoscimento di autorità per l’opera così elaborata, autorità data dalla “certezza” dell’insegnamento ricevuto (in Lc 1) o dalla verità della testimonianza del discepolo che Gesù amava (in Gv 21). In ultima istanza, però, il progetto unificante risponde alla convinzione teologica dell’unità originaria del messaggio della rivelazione di Dio in Gesù Cristo. I fatti sono compimenti, realizzazione della parola di Dio, i segni narrati portano alla fede in Cristo e alla vera vita.
Infine, l’osservazione di Gv 21,25 - il mondo stesso non potrebbe contenere la molteplicità delle cose raccontate, e da raccontare, su Cristo -, oltre a segnalare il moltiplicarsi effettivo dei racconti, riflette anche sull’inesauribilità dell’azione di Gesù, sull’inadeguatezza delle rappresentazioni, che il numero non può compensare. L’unità profonda del vangelo come evento di rivelazione di Dio non è disponibile, ed è raggiungibile solo per approssimazioni.


8.5
«Insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate».
La traiettoria di Matteo

Agli esempi di Luca e Giovanni si può paragonare quello di Matteo. Come gli altri, anche il vangelo di Matteo rielabora un certo numero di tradizioni che circolano già nelle Chiese di Siria.
A questo proposito non è inutile ricordare alcune ipotesi sulla diversità e pluralità di tradizioni presenti in un ambito geografico di produzione di scritture. Per la Siria, appunto, la critica storica ipotizza la presenza di almeno cinque tipi di tradizioni:
a) tradizioni che trasmettono la predicazione di Gesù - la fonte dei “detti” (lógia, Q), collezioni di parabole (Mc), elementi del discorso apocalittico (Mc 13);
b) tradizioni kerigmatiche che considerano la morte e la risurrezione di Cristo come l’avvenimento della salvezza: insegnate a Paolo durante i suoi soggiorni a Damasco e ad Antiochia, queste tradizioni saranno sviluppate nelle sue lettere (per esempio in I Cor 15,3-5), ma anche Marco e Matteo potrebbero avere rielaborato tali tradizioni nella redazione del loro vangelo;
c) la critica colloca anche in questa regione i circoli giovannei e la comparsa del quarto vangelo, almeno nelle prime fasi della sua redazione; inoltre, altre due correnti che non troveranno il loro posto nel canone del Nuovo Testamento si sviluppano verisimilmente in Siria;
d) le tradizioni del giudeo-cristianesimo che daranno nascita al vangelo dei nazareni e a quello degli ebioniti;
e) infine la corrente gnostica, che darà luogo agli Atti di Tommaso e alle Odi di Salomone; si potrebbe proporre una panoramica analoga per diversità a proposito dell’Egitto, dell’Asia Minore, di Roma o della Grecia.
In questo intreccio di tradizioni, Matteo riprende innanzitutto il vangelo di Marco, che cercherà di integrare andando oltre, e delle collezioni di parole di Gesù, detti (lógia) a forte caratteristica escatologica. Matteo raccoglierà anche tradizioni particolari sulla nascita e l’infanzia di Gesù; infine, attingerà a un patrimonio raccolto da scribi cristiani interessatisi a delle citazioni dell’Antico Testamento. Con il suo vangelo, Matteo formula una sintesi di queste tradizioni in parte scritte in parte orali. Produce una nuova scrittura a partire da scritture precedenti, riconosciute e modificate, propone una rilettura, interpreta la tradizione.
Ora, questa nuova scrittura rivendica un’autorità che il vangelo stesso formula a conclusione del suo racconto, nell’ultimo discorso di Gesù risorto nella sua apparizione in Galilea. Dice Gesù: «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente» (Mt 28,18-20). In questa chiamata alla missione universale il ministero missionario si articola in due compiti, battezzare e insegnare a osservare i comandamenti di Gesù. Le parole del Gesù terreno, restituite nei cinque discorsi di Gesù nel vangelo (Mt 5-7; 10; 13; 18; 24-25), sono diventate il contenuto dell’insegnamento cristiano. Più a monte ancora, questa predicazione di Gesù, riportata nel vangelo di Matteo, è legittima in quanto compie la legge. Non si pone come alternativa alla legge, ne è il prolungamento: «Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento» (Mt 5,17). La predicazione di Gesù ristabilisce la Torah nella sua verità. Si costituisce così una catena unificante e autorevole: il vangelo di Matteo, avendo integrato varie tradizioni (unità orizzontale), rivendica la sua autorità come insegnamento cristiano, con la pretesa di comunicare l’insegnamento stesso di Gesù durante il suo ministero terreno, a sua volta legittimato come compimento della legge (unità verticale). Vediamo adesso che l’unificazione verticale non coinvolge solo l’accertamento degli avvenimenti attraverso i testimoni, ma risale oltre, nella precedenza dell’antica alleanza che annunciava i compimenti a venire. A valle, gli insegnamenti di Gesù trasmessi nel vangelo di Matteo rivendicano l’autorità di essere seguiti da tutti quelli ai quali verrà predicato il vangelo di Gesù Cristo.


8.6
«Si dovevano compiere tutte le cose scritte di me
nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi»

Queste ultime osservazioni sull’autorevolezza dell’insegnamento del Gesù di Matteo, fondato anche sul compimento della legge, ci rimandano a una preoccupazione analoga in Luca, anche se espressa in modo diverso. L’unità è unità della parola di Dio già espressa nella legge e nei profeti e adempiuta nell’itinerario di Gesù Cristo. Questa unificazione della parola è fortemente rivendicata in chiusura del vangelo di Luca attraverso i tre episodi del capitolo 24, la tomba vuota (1-12), Emmaus (13-35), l’apparizione di Gesù risorto a Gerusalemme (36-49).
Il racconto della tomba vuota (Lc 24,1-11) permette di richiamare le donne alla realizzazione della profezia di Gesù stesso. Infatti, dicono i messaggeri, Gesù stesso aveva annunciato la sua crocifissione e la sua risurrezione: «Perché cercate il vivente tra i morti? Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quand’era ancora in Galilea, dicendo che il figlio dell’uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare. Esse si ricordarono delle sue parole» (24,5-8). Ai due discepoli sul cammino di Emmaus, poi, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano» (24,27). In modo più completo, infine, nell’episodio conclusivo del vangelo, dopo che la sua presenza di risuscitato è stata accertata (Lc 24,36-43), Cristo stesso collocherà nella stessa continuità il suo annuncio di quando condivideva la vita dei discepoli («dicevo quand’ero ancora con voi») e la profezia dei profeti («tutte le cose scritte di me») in un unico compimento:

Poi disse loro: «Queste sono le cose che io vi dicevo quand’ero ancora con voi: che si dovevano compiere tutte le cose scritte di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi». Allora aprì loro la mente per capire le Scritture e disse loro: «Così è scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno, e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme. Voi siete testimoni di queste cose» (24,44-48).

In questa chiusa abbiamo una sintesi delle questioni poste ancora oggi alla teologia del Nuovo Testamento. La relazione tra Antico e Nuovo Testamento, quella tra la predicazione del Gesù storico e il Gesù post-pasquale, tra il kerigma apostolico e il Gesù della storia. Luca risponde che si tratta di un’unica parola che si compie: gli avvenimenti della passione e di Pasqua sono il compimento delle profezie contenute in tutte le Scritture; Gesù stesso, durante il suo ministero terreno, aveva annunciato che avrebbero dovuto compiersi nella sua persona, e costituiscono adesso, così interpretati, il contenuto della testimonianza apostolica da diffondere a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme.


8.7
«Secondo le Scritture»

Negli ultimi due testi, a conclusione del vangelo di Matteo (capitolo 28) e di quello di Luca (capitolo 24), ritroviamo ancora una volta la bipolarità del vangelo e dell’apostolo, da un lato il Cristo risorto secondo l’adempimento delle promesse, dall’altro la missione di testimonianza affidata ai discepoli, agli apostoli.
Ciò che è stato detto su Matteo e sull’ultimo testo di Luca evidenzia l’importanza del riferimento all’Antico Testamento come fattore di unità, non solo per il giudeo-cristianesimo ma per tutti i testi del Nuovo Testamento. Matteo rielabora le sue tradizioni attraverso una teologia delle Scritture che si esprime, oltre che nella rivendicazione del compimento della legge da parte di Gesù, attraverso le citazioni di compimento, introdotte il più delle volte con una formula che ne sottolinea l’interpretazione d’insieme: «come è scritto», le promesse si sono adempiute (cfr. 1,22 s.; 2,5 s.15.17; 4,14; 8,17; 11,10; 12,17-21; 13,14 s.35), oppure attraverso le figure antiche. Come Mosè, Gesù viene salvato dalla morte violenta che lo minaccia fin dalla nascita (il massacro degli innocenti), e come lui uscirà dall’Egitto e salirà sul monte.
Anche l’autore della lettera agli ebrei sviluppa una vera teologia delle Scritture, che, come abbiamo visto nella prima citazione in queste righe (cfr. supra, PAR. 8.1), identifica il passaggio dalla rivelazione di Dio nella pluralità delle profezie alla parola definitiva rivelata negli ultimi giorni attraverso suo figlio. I diversi argomenti della sua esortazione saranno poi trattati ogni volta a partire da testi delle Scritture (Antico Testamento) interpretati allegoricamente.
Paolo non si riferisce all’Antico Testamento in tutte le sue lettere, lo fa principalmente in I e 2 Cor, Gal 3 e 4 e soprattutto in Rm 4 e 9-11. Non si accontenta di citare, ma sviluppa un’interpretazione dei testi che si integra alla sua argomentazione e che spesso ne costituisce il banco di prova. Luca nel suo vangelo, anche se non sviluppa una teologia della Scrittura, iscrive il suo racconto nello schema promessa-adempimento, dalla predicazione inaugurale di Gesù a Nazaret (Lc 4,16-30) all’apparizione conclusiva del risorto (24,44-47). Queste interpretazioni attraverseranno anche il libro degli Atti fino alla scena finale (At 28,17-31), dove viene ribadita ancora una volta l’unità della parola. Infatti, in contrasto con i giudei che se ne vanno in discordia tra loro (asŷmphonoi, versetto 25) Paolo pronuncia una parola unica (rhêma hén, ibid.), che è nello stesso tempo citazione dello spirito santo che parla attraverso il profeta Isaia (versetti 26 s., contenenti la citazione di Is 6,9-10). Che sia quella di Paolo, dello spirito santo o di Isaia, la parola è unica e dice la realtà promessa allora e oggi adempiuta: la salvezza di Dio viene proclamata alle nazioni.
Si potrebbe proseguire, con la prima lettera di Pietro, o l’Apocalisse di Giovanni, nella quale si contano più di cinquecento riferimenti diretti o indiretti all’Antico Testamento. Si possono anche citare i racconti della passione elaborati attraverso il prisma dei salmi del giusto sofferente, la rilettura dei canti del servo sofferente del secondo Isaia o dei salmi detti messianici. Malgrado l’anacronismo dell’espressione, dire che l’Antico Testamento è la Bibbia dei primi cristiani è richiamare il fatto essenziale che l’Antico Testamento fornisce anzitutto ai primi cristiani l’espressione della loro fede nel Dio creatore e liberatore, la storia del popolo eletto, le profezie e l’espressione delle loro attese, un linguaggio, dei simboli, un mondo per il credente. E questo radicamento è un forte fattore di unità nell’interpretazione dell’evento Gesù Cristo come rivelazione definitiva del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Come abbiamo visto a proposito di Matteo e Luca, non sono le Scritture in se stesse, bensì le Scritture interpretate, lette alla luce della rivelazione di Gesù Cristo, che contribuiscono a dare ai testi del Nuovo Testamento la loro appartenenza reciproca. I testi si piegheranno a essere interpretati in senso cristologico. Quelli che si prestano di più saranno anche i più riletti nel Nuovo Testamento: i salmi e i profeti, in particolare Isaia. Le Scritture contengono la testimonianza dell’agire di Dio che viene, le promesse fatte stanno per compiersi e hanno già iniziato a compiersi. Se il riferimento è diverso da uno scritto all’altro, l’intento è comune a tutti gli scritti del Nuovo Testamento.


8.8
Anche se il vangelo nasce orale

Le narrazioni evangeliche rappresentano le preoccupazioni della seconda o terza generazione cristiana che raccoglie delle tradizioni in parte scritte, in parte ancora orali, e le rielabora in un progetto unificante. Potremmo dedurre dal prologo di Luca che fintanto che l’accesso alla vita di Gesù è stato garantito dalla predicazione e dalla testimonianza di coloro che avevano condiviso il suo ministero in Palestina, il bisogno di uno scritto che ne tracciasse il percorso non si era fatto sentire, tanto più che la prima generazione cristiana aspettava con impazienza il prossimo ritorno del Cristo per giudicare il mondo. Il bisogno del libro crescerà con la necessità di affrontare la durata e la diffusione stessa del messaggio di Cristo. La durata significa allontanamento dal tempo delle origini. Durante gli anni sessanta del I secolo si conclude l’epoca apostolica con la morte di Paolo, Giacomo, Pietro, e dei testimoni diretti del ministero di Gesù. Ma la durata si apre anche a valle: poiché la parusia, cioè il ritorno glorioso di Cristo, non avveniva così presto come i seguaci di Gesù si erano aspettati, bisognava interpretare l’attesa di questo ritorno in altri termini, considerare il vivere nella storia, elaborare il compito di una missione “fino alle estremità della terra”.
Inoltre, con i missionari in cammino sulle strade dell’impero, l’annuncio della buona notizia di Gesù Cristo si era diffuso in modo tale che il legame diretto con i testimoni della prima generazione si perse rapidamente. Non solo la distanza temporale, ma anche quella geografica richiedevano altre forme di presenza. Nuove leve di predicatori, che non avevano mai incontrato un apostolo, dovettero prendere servizio; essi avevano bisogno di informazioni valide, affidabili, unificate sulla vita, la morte, l’opera e l’insegnamento di Gesù per nutrire la catechesi, il culto, la missione.
Si verifica una distanza rispetto all’origine della vita di Gesù, vissuta e condivisa direttamente, una distanza rispetto al suo ritorno finale e glorioso, una distanza rispetto al luogo di nascita del movimento. Bisogna imparare a essere discepoli di Cristo in questa distanza, bisogna fissare le testimonianze nello scritto e dar loro un significato, una prospettiva unificante prima che si affievolisca la loro nitidezza. Gli evangelisti hanno assolto a questo compito creando veri libri, con una composizione d’insieme, anche se, come abbiamo visto, tali libri sono cresciuti in più tappe, raggruppando diverse raccolte di racconti e parole: detti del Signore, catene di racconti di miracoli, relazioni degli episodi che avevano accompagnato la morte e la risurrezione di Gesù, concatenazioni di testi-prova tratti dalle Scritture (l’attuale Antico Testamento) che configuravano Gesù come il messia atteso.


8.9
Diversità e unità secondo il vangelo e l’apostolo

A questo punto del nostro percorso, vediamo come la tensione tra diversità e unità nel Nuovo Testamento sia una dialettica che si manifesta attorno a ciascuno dei due poli del binomio “il vangelo e l’apostolo”. Per il compito pratico dell’apostolo, del testimone, del predicatore, dell’autore, la diversità risiede nelle condizioni concrete della comunicazione del vangelo come messaggio, nella molteplicità delle testimonianze, nelle loro eventuali contraddizioni; l’unità è nel progetto degli autori e dei loro scritti, nel bisogno di autorevolezza che vi è legato, di autorità necessaria alla vita delle comunità.
Per il vangelo, inteso come avvenimento della rivelazione definitiva di Dio nel ministero, nella passione e nella risurrezione di Gesù di Nazaret riconosciuto come Cristo, la diversità è necessaria. Le testimonianze umane non possono essere che parziali. La rivelazione non può essere identificata completamente con nessuna delle sue rappresentazioni, che rimangono delle approssimazioni sempre e comunque limitate. Come dice Romano Penna a proposito del titolo scelto per la sua esposizione della cristologia del Nuovo Testamento, l’espressione I ritratti originali di Gesù il Cristo «vuole esprimere la molteplicità dei modi di approccio alla figura complessa del Nazareno». Nel ritratto di Gesù entra la fede del credente e la soggettività, come nel caso dell’artista: «Questo non significa affatto cadere nel relativismo, ma semmai affermare l’inesauribile profondità del soggetto di cui si parla, mai totalmente attingibile».


8.10
L’occasione delle lettere

Se il vangelo nasce orale e lo scritto arriva dopo, anche nel ministero di Paolo le cose vanno così. E anche qui lo scritto ha un intento di unità, unità nel messaggio trasmesso, che deve anche garantire l’unità delle comunità destinatarie del messaggio. Paolo scrive le sue lettere (redatte attorno agli anni cinquanta del I secolo) dopo diversi anni di ministero. E anche nella relazione con le singole comunità la cosa si ripete. Soltanto qualche tempo dopo la visita di fondazione della comunità, durante la quale Paolo ha predicato di persona, delle lettere vengono mandate a Tessalonica, Corinto, Filippi, alle Chiese della Galazia. La lettera è un documento secondario in rapporto alla parola viva: «voi ricordate la nostra fatica è lavorando notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi, che vi abbiamo predicato il vangelo di Dio» (I Ts 2,9). Paolo affida alle sue lettere una funzione di supplenza: sostituire una sua presenza quasi sempre auspicata, una visita annunciata, ritardata, impedita: «Quanto a noi, fratelli, privati di voi per breve tempo, di persona ma non di cuore, abbiamo tanto più cercato, con grande desiderio, di vedere il vostro volto» (I Ts 2,17).
Scrivere è proseguire il proprio intervento pastorale e apostolico a distanza, affrontando le questioni concrete: «Or quanto alle cose di cui mi avete scritto, è bene...» (I Cor 7,1); «Quanto alle carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che...» (I Cor 8,1); «Circa i doni spirituali, fratelli...» (I Cor 12,1). Si tratta di completare, di correggere delle interpretazioni sbagliate, di trarre tutte le conseguenze dalla predicazione ascoltata, di ricollocare la vita delle comunità nella coerenza del vangelo annunciato. Sono le questioni, i problemi, le tensioni vissute nella situazione particolare delle comunità in assenza dell’apostolo che spingono Paolo (e altri apostoli) a scrivere per dare delle risposte.
Nelle lettere di Paolo, la pluralità e la varietà si esprimono in questo carattere occasionale e mirato della comunicazione, non di rado in situazioni polemiche o conflittuali. Conflitto con sostenitori della legge che rischiano di dividere le comunità (Gal 2,3-5.12), concorrenza tra fazioni a Corinto (I Cor 1,11 ss.; 11,18), tensioni tra “forti” e “deboli” più volte ricordate in relazione a questioni alimentari (i Cor 8,7-13; Rm 14 e 15), rischio che delle comunità si allontanino dall’apostolo (i galati), conflitto sul riconoscimento dell’apostolato di Paolo (2 Cor 10-13): sono molte le forze centrifughe che minacciano la sopravvivenza delle comunità. Normalmente si tratta della situazione interna di comunità ancora nuove e fragili. I rischi, sempre incombenti, di ripiombare in abitudini e comprensioni collegate al paganesimo di origine si sommano però a quelli di cedere alla propaganda religiosa di predicatori itineranti, concorrenti o addirittura avversari o considerati tali. Precisare, affinare, correggere, esortare, confortare, incoraggiare, minacciare, anche segnare un limite.


8.11
Quale unità per le comunità paoline?

Diversità e unità appaiono nelle lettere di Paolo in una dinamica ancora più marcata e contrastata che nei racconti evangelici. Di fronte a rischi di dissoluzione o di perdita di identità delle comunità, il progetto unificante si propone con forza. È certamente fondato sulla buona novella ricevuta da Paolo come esperienza personale di rivelazione: «ho visto» (I Cor 9,1), «si è fatto vedere a me» (I Cor 15,8), «Dio mi ha rivelato» (Gal 1,16). Ora, questa rivelazione ha portato Paolo alla scoperta che, manifestandosi nella persona di un crocifisso - morte infamante per l’antichità e maledetta per la tradizione giudaica (cfr. Dt 21,22-23), riletto in Gal -, Dio lo ha riabilitato e designato come figlio suo e Signore. Il significato teologico dell’evento pasquale - nel quale Dio ha risuscitato dai morti colui che era “morto sulla croce” perdendo ogni dignità - è determinante per la comprensione della relazione tra Dio e gli uomini, e tra gli uomini e le donne che costituiscono la nuova comunità.
Riabilitando il crocifisso con la sua risurrezione, Dio si è rivelato come un Dio che non tiene conto delle appartenenze e delle qualità. La giusta relazione con Dio non dipende dalle proprie qualità, dalle appartenenze - essere giudeo e non pagano, uomo e non donna, libero e non schiavo - o dalle proprie prestazioni, poiché nessuno sarà reso giusto attraverso le opere della legge. Essere in una giusta relazione con Dio è riporre in lui la fiducia, è la fede in e di Gesù Cristo.
Manifestare che Dio non tiene conto delle appartenenze, delle qualità e delle prestazioni è già in qualche modo la prassi di Gesù, che mangia e beve con i pubblicani e i peccatori e indica in questa commensalità senza condizione la venuta della regalità di Dio: «È venuto il figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori!”» (Mt 11,19 // Lc 7,34).
Ora, l’unità e la diversità nelle comunità saranno affrontate in coerenza con questa scoperta. «Infatti», dice Paolo ai galati, «voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui né giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,27 s.). Paolo prende di petto le grandi appartenenze che determinano l’esistenza di tutti, dal punto di vista di un ebreo del I secolo.
Paolo non dice che non ci sono più differenze, sa che nella Chiesa ci sono dei giudei e dei pagani, degli schiavi e dei liberi, degli uomini e delle donne, e che queste differenze possono portare a forti tensioni, ma appunto i membri della comunità sono invitati ad accogliersi come sorelle e fratelli amati e riconosciuti da Dio indipendentemente da tutto il resto, senza condizioni. Accolto senza condizioni, però, ciascuno lo è tale e quale come è, giudeo, greco, schiavo, libero, donna, uomo, e non gli viene chiesto di cambiare per essere accettato.
È una nuova forma di socialità che nasce dalla proclamazione della croce, dalla proclamazione liberatrice della risurrezione e della morte di Gesù. Socialità nella quale - e questo è essenziale per il nostro argomento - l’universalismo e il pluralismo, lungi dal contrapporsi, si rafforzano a vicenda. Paolo esprime queste relazioni riprendendo e reinterpretando la metafora del corpo (cfr. I Cor 12,1-31; Rm 12,3-8), che l’ideologia politica usava per affermare la necessità della coesione sociale per il bene di tutti. Ognuno dei membri ha ricevuto dei doni che gli sono propri (universalismo); l’insieme dei doni presenti nella comunità sono opera dello stesso spirito (unità); la differenza dei doni complementari tra loro è necessaria, altrimenti il corpo non può funzionare (pluralismo); i membri meno privilegiati sono tenuti in onore (uguaglianza); apostoli, profeti, insegnanti esercitano una responsabilità essenziale di richiamo alla verità fondante (regola).


8.12
Solo lettere, eppure...

Anche se le lettere di Paolo non hanno l’intenzione di fissare qualcosa come un orientamento teologico valido per tutti i tempi e tutte le comunità, il contenuto delle lettere, dove i diversi argomenti pratici, di relazione e di comportamento sono accuratamente motivati teologicamente, trascende la circostanza particolare che le ha fatte nascere. Inoltre, la preoccupazione di autorità non è estranea alla riflessione dell’apostolo e non è senza analogia nella sua elaborazione con l’impostazione rilevata in Luca, Matteo o Giovanni, che integravano “verticalmente” delle tradizioni autorevoli per proporre a loro volta la propria opera come autorità di riferimento.
Così, per esempio, nella prima lettera ai corinzi si legge:

Vi ricordo, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato, che voi avete anche ricevuto, nei quale state anche saldi, mediante il quale siete salvati, purché lo riteniate quale ve l’ho annunziato; a meno che non abbiate creduto invano. Poiché vi ho prima di tutto trasmesso, come l’ho ricevuto anch’io, che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture [...]; che fu seppellito; che è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture (I Cor 15,1-4).

In questi versetti Paolo rimanda alla sua predicazione a viva voce durante la visita di fondazione, la quale a sua volta era fondata su una confessione di fede che lui stesso aveva ricevuto («Poiché vi ho prima di tutto trasmesso, come l’ho ricevuto anch’io, che Cristo...»). Questo doppio rimando, però, è il punto di partenza del suo insegnamento più sviluppato sulla risurrezione (cfr. I Cor 15,1-58) in risposta alla sua negazione da parte di certi corinzi (cfr. I Cor 15,12). La tradizione ricevuta e trasmessa viene interpretata in circostanze comunicative particolari. Infatti, per Paolo, la risurrezione di Gesù è l’attestazione di una trasformazione finale, attraverso la quale Dio porterà a termine la sua creazione (cfr. I Cor 15,20-58).
Paolo procederà così più di una volta. Riceve e trasmette tradizioni così come le ha ricevute, probabilmente dalle comunità di Siria (Antiochia e Damasco) che ha combattuto e dove si è convertito. Possono essere parole di Gesù (cfr. I Cor 7,10 s.; 9,14; 11,23-25; I Ts 4,15-17), confessioni di fede, come abbiamo appena visto sulla risurrezione (cfr. I Cor 15,3-5, ma anche Rm 3,25; Gal 1,4-5; I Ts 1,9-10), inni (cfr. Fil 2,6-11) o tradizioni liturgiche (cfr. I Cor 11,23-26). Paolo non si accontenta di ripetere, reinterpreta le tradizioni in funzione del suo scopo. Lo fa con una glossa, come in Rm 3,25-26, dove aggiunge «per mezzo della fede», o in Fil 2,8, dove aggiunge «una morte di croce»; completa una formula tradizionale con una formula sua (Rm 1,3 s., ripreso in 1,16 s.). Crea anche nuove formulazioni.
Per il suo testo, anche se si tratta di lettera occasionale, Paolo pretende autorità, che dipende dall’autorità riconosciuta al suo apostolato e dalla sua coscienza di essere portatore del vangelo. Proprio ciò che viene contestato dai suoi avversari in 2 Cor 10 e che Paolo in più di una occasione rivendica con forza: è «delegato del Signore» (I Cor 7,25.40), «del Signore» sono le sue istruzioni (I Cor 14,37), la sua predicazione è parola di Dio: «quando riceveste da noi la parola della predicazione di Dio, voi l’accettaste non come parola di uomini, ma, quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente in voi che credete» (I Ts 2,13).
L’autorità della lettera cresce con il fatto che fin dall’inizio le lettere dell’apostolo sono lette nell’assemblea della comunità, dove si leggevano anche le Scritture (l’Antico Testamento). Inoltre, il carattere sostitutivo della lettera in assenza dell’apostolo le attribuisce presto un grande valore. Poi le lettere circolano, la richiesta alla comunità di Tessalonica che «si legga questa lettera a tutti fratelli» (I Is 5,27) potrebbe implicare l’esistenza di più comunità domestiche. Paolo stesso indirizza una lettera circolare alle Chiese della Galazia (cfr. Gal 1,2). Presto poi, se si considera che l’epistola ai colossesi è stata scritta da un discepolo di Paolo, le lettere verranno ricopiate e scambiate tra comunità: «Quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che sia letta anche nella Chiesa dei laodicesi, e leggete anche voi quella che vi sarà mandata dai laodicesi» (Col 4,16). Le lettere a loro volta diventeranno Scrittura. Questo sviluppo della dinamica unificante dell’eredità paolina porta alla formazione prima delle collezioni del corpus paolino, poi alla loro integrazione nell’elaborazione del canone del Nuovo Testamento.


8.13
La formazione del canone: il Frammento di Muratori

Con gli esempi di Luca, Giovanni, Matteo e Paolo abbiamo visto come gli scrittori del Nuovo Testamento facevano i conti con la pluralità delle tradizioni o delle circostanze ed elaboravano i loro scritti come un progetto unitario, fondato sulla convinzione di fede che l’unità originaria e finale era nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Ciascun scritto era destinato a svolgere una vita propria, rivolto a una comunità particolare oppure a un gruppo di comunità. Eppure, la dinamica che anima il processo di canonizzazione e porterà alla stesura di elenchi di scritti riconosciuti come base sulla quale la Chiesa fissa e ritrova la sua identità è già presente nella redazione stessa dei vangeli e delle lettere di Paolo. Operano delle scelte nelle loro fonti e nelle tradizioni considerate autorevoli, le organizzano, le incardinano in una coerenza d’insieme (tanto nella forma biografica dei vangeli che nelle argomentazioni di Paolo), rivendicano autorità per lo scritto stesso, rispondono - come farà il canone del Nuovo Testamento - all’esigenza di unità della Chiesa.
Se si accetta il Frammento di Muratori quale testimone dello stato del canone alla fine del II secolo, allora esso può fungere da osservatorio per interrogarsi sulle dinamiche che hanno portato a quel punto. In questo elenco quattro libri non sono nominati (I e 2 Pt, Gc ed Ebr). In una prima parte (righe 1-63) il testo presenta gli scritti dall’autorità indiscutibile distinti in due raccolte, i vangeli (I Gv viene collegata al quarto vangelo) e gli Atti da un lato, tredici epistole di Paolo dall’altro. In una seconda parte viene valutato un certo numero di scritti il cui statuto richiede discussione. Gli uni sono da rifiutare in quanto opere di eretici (righe 63-68 e 81-85), altri sono di sana origine, ma si discute se devono essere letti nell’assemblea pubblica o riservati alla lettura privata.


8.14
Quattro vangeli

Per il nostro argomento interessa prima di tutto la presentazione dei quattro vangeli. Anche se l’inizio del testo è perso e con esso le notizie su Marco e Matteo, l’attribuzione dei numeri “terzo” e “quarto” per i vangeli di Luca e di Giovanni attesta la fissazione del canone dei quattro vangeli già a quell’epoca, situazione questa confermata nello stesso periodo da Ireneo, Tertulliano e Clemente Alessandrino.
Il riconoscimento di quattro vangeli differenti tra loro come testi ugualmente autorevoli per la testimonianza della vita di Gesù non era scontato. Se sono necessari quattro racconti, allora questo significa che nessuno di loro esprime tutta la verità sulla vita di Gesù, che è fondamento della vita cristiana I vangeli sono stati scritti per essere auto-sufficienti, Matteo e Luca per sostituire Marco, non per fargli da complemento. Ciascun vangelo mirava a diventare il vangelo di riferimento per una comunità o un insieme di comunità. L’ipotesi della critica storica è che ogni vangelo venisse letto in una regione: Matteo in Palestina e Siria, mentre in Asia Minore esistono gruppi che leggono solo Giovanni e così via secondo le regioni per Luca e Marco. La dialettica diversità-unità si giocava all’interno della redazione del singolo scritto. Il mutamento delle rappresentazioni, questo allargamento della percezione della Chiesa, è il risultato di un processo relativamente lungo.
Se il prologo di Luca e le conclusioni di Giovanni sembrano testimoniare alla fine del I secolo una reazione alla pluralità dei racconti e degli episodi della vita di Gesù, nel II secolo la reazione al moltiplicarsi dei vangeli prende la forma radicale della riduzione a un unico vangelo, almeno in due interventi conosciuti. Marcione, escluso dalla Chiesa di Roma come eretico nel 144, procede per esclusione riconoscendo il vangelo di Luca come unico vangelo. Il suo criterio di scelta è teologico e radicale: essendo il cristianesimo fondato su una nuova rivelazione di un Dio d’amore padre di Gesù Cristo, diverso dal Dio giusto ma di vendetta dell’Antico Testamento, le scritture cristiane sono incompatibili con quelle ebraiche. Solo Paolo ha capito questa novità e solo le sue epistole e il vangelo di Luca, dopo accurata revisione del loro testo, avranno posto nel canone di Marcione.
Taziano invece, con il suo Diatessaron, verisimilmente redatto a Roma in greco verso il 170, proponeva un’armonia dei quattro vangeli in un unico racconto. Questo vangelo ebbe un successo tale da rimanere il testo ufficiale della Chiesa di Siria per più di due secoli. Si noterà che Taziano si confronta già con i quattro vangeli come insieme da armonizzare.
Le resistenze alla canonizzazione dei quattro vangeli si sono anche nutrite della constatazione delle differenze che li separavano, particolarmente sensibili nel modo in cui i vangeli iniziano (le genealogie differenti, la presenza o meno di racconti diversi tra loro della nascita di Gesù ecc.). Il Frammento di Muratori echeggia questi dibattiti a proposito del quarto vangelo, al quale dedica una particolare attenzione. Oltre a quelle dovute alla diversità del racconto di Giovanni - forse in parte anche per questo motivo - bisognava rispondere anche alle critiche degli anti-montanisti che, alla fine del II secolo, attribuivano il quarto vangelo non all’apostolo Giovanni bensì all’eretico Cerinto.

Il quarto vangelo è quello di Giovanni, [uno] dei discepoli. Ai suoi discepoli e ai vescovi, che lo spingevano [a scrivere], egli disse: «digiunate con me da oggi per tre giorni, e ciò che sarà rivelato a ciascuno diciamocelo l’un l’altro». La stessa notte fu rivelato ad Andrea, [uno] degli apostoli, che Giovanni avrebbe dovuto scrivere tutte le cose a suo nome mentre gli altri avrebbero dovuto controllarne l’esattezza, così, sebbene vari principi possano essere insegnati nei singoli libri dei vangeli, nondimeno ciò non fa differenza per la fede dei credenti, dal momento che da un unico spirito supremo tutte le cose sono state proclamate in tutti [vangeli]: riguardo alla natività, riguardo alla passione, riguardo alla risurrezione, riguardo alla vita con i suoi discepoli e riguardo alla sua duplice venuta (Frammento di Muratori, righe 9-23).

In un certo senso, la scena di verificazione di Gv 21,24 (cfr. supra, PAR. 8.3) si è ampliata. La redazione del quarto vangelo ha avuto luogo in circostanze straordinarie, Giovanni ha scritto sotto il proprio nome, ma dopo verifica e approvazione dei discepoli. Non può essere squalificato per la sua differenza dagli altri vangeli. L’affermazione di unicità dello spirito all’opera nei diversi racconti poggia anche su una proposta di lettura sintetica e armonizzante dell’insieme delle testimonianze.
Alla fine del II secolo, Ireneo di Lione si sforzerà di teorizzare il numero quattro a partire dalla natura e dalla storia della salvezza (cfr. Contro le eresie III,11,8). Infatti, il numero quattro per i vangeli è obbligato perché nella natura ci sono quattro punti cardinali, che corrispondono ai quattro venti, alle quattro colonne che portano il mondo ecc.; nella storia della salvezza ci sono quattro alleanze (Noè, Abramo, Mosè, Cristo); nella profezia ci sono i quattro viventi (in Ez 1,10, ripresi in Ap 4,7).


8.15
Dalla occasionalità alla Scrittura: l’universalità delle lettere apostoliche

Se la molteplicità delle lettere non pone lo stesso problema dei quattro vangeli, rimane la questione della loro occasionalità. Come possono delle lettere indirizzate a Chiese particolari per affrontare problemi particolari essere portatrici di un messaggio di autorità per tutte le Chiese?
Concludevamo il PAR. 8.12 costatando che, per l’importanza della riflessione teologica, la loro lettura nell’assemblea pubblica, lo scambio di lettere o l’uso della circolare, molto presto le lettere di Paolo vengono considerate oltre il loro carattere occasionale e diventano a loro volta tradizione da ricevere, Scrittura.
Diventate tradizione, le lettere di Paolo faranno nascere altri testi per interpretarle, per gestirne la ricezione quando le circostanze saranno mutate. In questa prospettiva s’inseriscono le ipotesi di una letteratura deuteropaolina (cfr. colossesi, efesini, lettere pastorali), che si sarebbe sviluppata attorno a Efeso e il cui scopo sarebbe stato di conservare, trasmettere e attualizzare l’insegnamento di Paolo. Nella stessa direzione vanno le ipotesi che vedono in 2 Ts una rilettura di I Ts, orientata a correggere i malintesi possibili creati da un’errata interpretazione sull’attesa della parusia.
Alcuni indizi testuali fanno anche pensare che il testo delle lettere sia stato ritoccato per renderlo più universale. Così si spiegherebbe l’assenza di destinazione geografica nei manoscritti più antichi di Ef 1,1 (la lettera o la sua copia sarebbe stata mandata a più destinatari) oppure l’espressione «con tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (I Cor 1,2b), considerata da molti un’aggiunta universalizzante per allargare l’indirizzo della lettera a tutta la Chiesa.
Certi esegeti vedono nelle questioni legate alla collocazione della dossologia di Rm 16,25-27 (posta in luoghi diversi secondo i manoscritti) l’indizio dell’esistenza di più di una versione della lettera ai romani, una delle quali in forma universalizzata.
Oltre a questi segni particolari, è l’interpretazione stessa delle lettere che viene modificata man mano si universalizza il loro uditorio, come evidenzia con chiarezza la seconda epistola di Pietro, scritto tardivo del Nuovo Testamento: «Come anche il nostro caro fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; e questo egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di questi argomenti. In esse ci sono alcune cose difficili a capirsi, che gli uomini ignoranti e instabili travisano a loro perdizione come anche le altre Scritture» (2 Pt 3,15 s.). Impariamo da questo testo che, all’inizio del II secolo, le lettere di Paolo sono conosciute da numerose comunità come un insieme coerente e sono già considerate Scritture come altre: la loro interpretazione è però oggetto di dibattito e di conflitto. Diventando Scritture, anche le lettere degli apostoli si globalizzano e non sono più considerate nella loro singolarità. Così, l’autore di 2 Pt può riferirsi a Paolo come autorità di riferimento a conclusione della propria lettera: le sue proprie esortazioni sono in linea con l’insegnamento di Paolo. Non si riferisce a questa o quest’altra lettera, ma al loro insieme, così come nel racconto di Emmaus il Gesù risorto richiama le Scritture (Antico Testamento) nel loro insieme: «E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ecc.» (Lc 24,27).
Su questa linea, il Frammento di Muratori segna un punto d’arrivo, in cui l’universalizzazione dell’uditorio ideale delle lettere è compiuta. Anche se il frammento attesta un corpus di tredici lettere di Paolo, la sua presentazione predilige la cifra sette, simbolo della perfezione e dell’universalità:

Il santo apostolo in persona, seguendo l’esempio del suo predecessore Giovanni, scrive nominativamente a solo sette Chiese nel seguente ordine, ai corinzi la prima, agli efesini la seconda, ai filippesi la terza, ai colossesi la quarta, ai galati la quinta, ai tessalonicesi la sesta, ai romani la settima. È vero che scrive un’altra volta ai corinzi e ai tessalonicesi per ammonimento, però facilmente si riconosce che c’è una sola Chiesa sparsa su tutta la terra, perché anche Giovanni nell’Apocalisse, benché scriva a sette Chiese, non dimeno parla a tutte (Frammento di Muratori, righe 48-61).

Segue poi una menzione particolare delle lettere indirizzate a individui (Filemone, Tito e due a Timoteo), considerate sacre per la Chiesa cattolica in quanto regolamentano la disciplina ecclesiastica (righe 62-63).
Tutta la presentazione mira all’universalità del messaggio rappresentata dalle sette Chiese destinatarie, confermata dall’esempio di Giovanni. Quando la lettera agli ebrei sarà introdotta nel canone, il ragionamento sarà mantenuto nel risultato ma modificato nel percorso: quattordici sono le lettere di Paolo, dunque due volte sette!


8.16
Una pluralità limitata

Come si vede da questo percorso, c’è una dinamica che porta alla formazione del canone del Nuovo Testamento in mezzo alla diversità delle testimonianze, una spinta unitaria attiva fin dalle prime redazioni. Inoltre, l’interpretazione dei testi che accompagna questo movimento va nel senso dell’armonizzazione: la tendenza è alla prospettiva unificante del messaggio della Bibbia. Con la formazione del canone, la Chiesa si dà uno spazio di riferimento per precisare e approfondire la propria identità storica e teologica. Come evidenzia il Frammento di Muratori, la formazione del canone neotestamentario partecipa del tentativo di proiettare un’immagine di unità sulle origini del cristianesimo. Questo progetto è consono a quello che anima la rielaborazione della prima storia del cristianesimo osservabile, per esempio, negli Atti degli apostoli, che rappresenta il periodo apostolico come tempo di comunione e armonia. Le differenze sono ridotte a dimensioni accettabili, le diversità irriducibili sono dimenticate e ciò che non entra nell’unità è oggetto di esclusione, cioè diventa eresia. «Perché non è opportuno che il fiele sia mischiato al miele», dice appunto il Frammento di Muratori per giustificare l’esclusione di due epistole, quelle ai laodicesi e agli alessandrini, «falsificazioni scritte sotto il nome di Paolo per [promuovere] l’eresia di Marcione» (righe 64-67).
Tale progetto ha il suo prezzo. Le lettere perdono il loro carattere occasionale e vengono fatte corrispondere a situazioni ecclesiali o religiose tipiche o generali; i vangeli avranno tendenza a spiegarsi l’uno con l’altro in un solo racconto, perdendo il proprio profilo e il taglio della loro narrazione particolare. L’unità rischia allora di imporsi dall’esterno, dalla dottrina della Chiesa, che attingerà al canone come a un racconto e a un insegnamento unico, valido in ogni circostanza.
Eppure, la diversità dei contenuti teologici e delle forme non è stata eliminata. Certamente dobbiamo molto all’approccio storico-critico alla Bibbia per la riscoperta delle particolarità proprie di ogni scritto. L’attenzione è stata riportata sulle circostanze storiche nelle quali ogni scritto si è formato, sui luoghi, i tempi, le comunità destinatarie, l’intenzione dell’autore, la situazione comunicativa. La loro diversità appunto.
Il canone esprime assieme l’unità e la diversità del Nuovo Testamento e della Chiesa. Una pluralità limitata: né l’unicità, né il tutto. Né seduzione unitaria, né dispersione nel mondo delle nazioni, ma piuttosto uno spazio per delle significazioni nuove. Non si accoglie tutto, non qualsiasi diversità, il canone segna un limite, c’è un dopo che comincia con i cosiddetti padri apostolici, c’è un accanto per la letteratura apocrifa. Il canone non impedisce l’apocrifo ma lo colloca, gli assegna uno spazio di riconoscimento. D’altro canto, la riduzione a un testo unico, che avesse la pretesa di essere la trascrizione della parola, porterebbe all’illusione che una voce sola, una voce umana, possa essere perfettamente la trascrizione della parola di Dio. Invece il canone garantisce questa diversità necessaria.


8.17
La diversità garantita

La diversità di approcci coinvolge tutti temi maggiori della teologia cristiana: la morte e la risurrezione di Cristo, l’identità di Gesù, il regno di Dio, la vita e la fede, il peccato, l’organizzazione della Chiesa, la fine dei tempi, la speranza...
Così, se «la morte di Gesù in croce, condannato dal prefetto romano del tempo Ponzio Pilato, è il punto più fermo nella ricerca storica», le interpretazioni date dai primi cristiani a questa morte sono numerose, diverse e non sempre compatibili tra loro. Hanno prima di tutto insistito sul carattere necessario della passione: compimento della Scrittura e dell’annuncio dei profeti, la morte di Gesù si inserisce nel piano di Dio. Numerose sono le espressioni che tessono nei racconti evangelici la trama di questo piano divino: «bisognava che», «doveva» ecc..
Una volta inserita la morte di Gesù in un piano divino secondo le Scritture, si è cercato di esprimere la relazione tra la morte di Gesù e la vita della comunità. La croce viene percepita come momento culminante, avvenimento che non solo interpella ma che trasforma, luogo dove Dio si manifesta una volta per tutte dinanzi al mondo. Se nel pensiero biblico il peccato esprime la rottura della relazione tra l’umano e Dio, la morte di Gesù diventa il luogo della restaurazione di questa relazione. Per esprimere questa realtà del per noi della morte di Cristo i primi cristiani hanno preso a prestito immagini e metafore dal loro mondo religioso, cultuale e giuridico. Per esempio, la pratica dei sacrifici di animali, presente non solo nel culto giudaico e nella tradizione dell’Antico Testamento, ma in maniera diffusa nelle religioni dell’antichità, raffigura Gesù come vittima espiatoria per molti (cfr. Mc 14,24; Gv 1,29; I Cor Ef 5,2; I Pt 1,2 ecc.). Oppure, la realtà sociale della schiavitù permette di capire la morte del galileo come riscatto per molti, per noi, come il prezzo pagato per la liberazione di uno schiavo su un mercato (cfr. Mc 10,45; Gal 3,13; 4,5 s.; I Cor 6,19 s.; 7,22 s. ecc.).
Oltre a questi motivi, le tradizioni del Nuovo Testamento interpretano ancora la morte di Gesù come sofferenza del giusto seguendo i motivi dei salmi di lamentazione (cfr. Sal 22; 31; 34; 69; 140), come destino tragico dei profeti (cfr. Mt 5,12; Lc 6,23; Mt 23,37 // Lc 13,34), oppure con il battesimo attraverso una partecipazione alla morte di Cristo (cfr. Rm 6,1-14), oppure ancora come vittoria sulle potenze di morte, come rivelazione dell’amore di Dio. È stato anche messo l’accento sull’esemplarità della morte di Gesù, particolarmente nell’opera di Luca.
Queste immagini e tradizioni sono altrettante approssimazioni, che pur non essendo sempre compatibili non si escludono, servono a testimoniare, in una diversità sempre da reinterpretare, un significato fondamentale: la storia della morte di Gesù è una storia di liberazione. «Il sangue versato, il sacrificio offerto, il compimento dell’espiazione, il pagamento del riscatto sono altrettanti termini indicanti il passaggio dalla colpevolezza alla riconciliazione, dalla rottura alla comunione, dall’alienazione alla libertà».
Anche se non con una molteplicità così variegata, il linguaggio della risurrezione non è omogeneo e univoco. I primi cristiani esprimono la risurrezione su tre o quattro registri: parlano della risurrezione di Cristo come di un risveglio o di una rimessa in piedi, oppure la risurrezione è esaltazione, oppure ancora semplicemente vita. Questi linguaggi, ancora una volta metaforici e approssimativi, possono completarsi, lasciando però dei vuoti senza risposte, aperti a significazioni e interpretazioni future.
La doppia metafora del risveglio e dell’essere rimesso in piedi (cfr. Cor 15,4; I Ts 4,14) iscrive l’evento della risurrezione su un asse orizzontale prima/dopo, e da un lato mette l’accento sul carattere di avvenimento storico della proclamazione pasquale, dall’altro sul fatto che si tratta di atto creatore di Dio - è Dio che resuscita Gesù. Il linguaggio dell’esaltazione si origina nei salmi, dove il giusto umiliato sarà innalzato e parteciperà alla vita divina, o nei canti del servo del Signore: «Ecco, il mio servo prospererà, sarà innalzato, esaltato, reso sommamente eccelso» (Is 52,13 3). L’esaltazione iscrive la risurrezione su un asse verticale con l’intento di esprimere che non si tratta di un ritorno alla vita degli uomini (come Lazzaro), ma di partecipazione eminente alla vita stessa di Dio (I Cor 15,42-45). In questo senso, il linguaggio dell’elevazione non solo completa il linguaggio del risvegliare/rimettere in piedi, ma evoca l’autorità di Cristo per sempre. Come linguaggio liturgico, forse non esprime abbastanza il passaggio attraverso la morte.
Il linguaggio dell’elevazione implica una continuità identitaria l’innalzato è il Gesù abbassato e crocifisso -, ma anche una discontinuità qualitativa - l’innalzato non è più l’uomo di Nazaret, ma il Signore della creazione e delle potenze. La metafora dell’elevazione sottolinea il significato cosmico della predicazione di Pasqua. L’esistenza di ciascuno e il mondo di tutti cambiano padrone (cfr. Rm 6,1-14; Fil 2,9-11; Mt 28,18-20).
«Perché cercate il vivente tra i morti?» (Lc 24,5); «Gesù gli disse: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”» (Gv 14,6). Infine, siccome il motivo della vita non precisa di che qualità è la vita risorta, viene usato assieme e in complemento di altre metafore.
In uno studio sul canone come garanzia di unità e di pluralismo nella Chiesa, Romano Penna illustrava in modo efficace con alcuni esempi queste differenze che aprono il canone a significazioni nuove. Per esempio, a proposito della relazione tra morte e risurrezione di Cristo, tra le prime confessioni di fede, ci sono approcci divergenti che illustrano due antiche tradizioni conservate nelle lettere di Paolo. Se in I Cor 15,3-5 alla risurrezione è associata la morte di Cristo, alla quale viene data una dimensione soteriologica come sacrificio di espiazione, in Rm 1,3b-4a, invece, la risurrezione viene messa in relazione con l’appartenenza alla discendenza davidica. La morte non ha valore soteriologico e il percorso si conclude con l’intronizzazione regale del risorto (cfr. Sal 2,7; 110,1; I Sam 7,14-16).
La diversità si manifesta anche nel modo di raccontare l’identità di Gesù nelle narrazioni evangeliche. In Marco il mistero sull’identità messianica di Gesù mantiene la tensione tra l’agire del potente taumaturgo ammirato dalle folle e il suo annunciare il messia sofferente che provoca incomprensione e rifiuto. Sarà poi un pagano, esecutore materiale della.
geodea
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Messaggioda Amministratore » mer apr 18, 2007 1:46 pm

morte di Gesù, a formulare la confessione di fede che scioglie il segreto (Mc 15,39). In contrasto con questo motivo di un segreto messianico, il quarto vangelo proclama l’identità trascendente di Gesù, dal prologo (unigenito figlio di Dio, venuto da un altro mondo) alla confessione di Tommaso («Signore mio, Dio mio») che chiude la narrazione. Le due prospettive cristologiche sono mantenute nel canone, a testimoniare la parzialità di ogni ermeneutica dell’evento della rivelazione.
Un esempio spesso presentato come illustrativo delle divergenze interne al Nuovo Testamento è l’insegnamento della giustificazione in Paolo e in Giacomo. Penna mette l’accento sulla differenza di concezione del peccato nell’epistola di Giacomo e in Paolo. In Paolo, la condizione peccaminosa, «alla quale l’uomo è venduto in schiavitù a prescindere da una propria decisione responsabile», precede l’azione umana in generale e, in particolare, ogni trasgressione della legge. Solo Cristo può liberare da una simile schiavitù, riscattandoci attraverso il dono della croce, al quale ci si può rapportare solo attraverso la fede. Per Giacomo, invece, la fede non basta: il peccato non precede gli atti, ma coincide con gli atti stessi (in Gc 1,15 s. il peccato segue la concupiscenza, mentre in Rm 7,8 la precede). L’uomo è giustificato non solo dalla fede, ma anche dalle opere della legge (cfr. 2,24). Gc rappresenta una linea giudeo-cristiana fedele alla legge, mentre Paolo propone l’efficacia, unica e sufficiente della croce di Cristo. La giustizia non è riducibile a categorie etiche. Hahn sfuma queste contrapposizioni, ricordando che mentre la questione della giustificazione per fede è al centro della predicazione della salvezza di Paolo, essa viene posta nell’ambito della parenesi in Giacomo.
La diversità è presente anche nell’organizzazione delle Chiese. Incentrata su un singolo vescovo con una cerchia di anziani è la Chiesa di Gerusalemme (At 15,4.22; 16,4), mentre a Corinto la molteplicità di carismi esprime la forza dello spirito (I Cor 12,4) senza menzione di nessuna prevalenza di un singolo rappresentante personale. Unico criterio di unità della Chiesa è il kerigma della croce, con la relazione di agápe per i rapporti tra persone (I Cor 13). Si potrebbe anche aggiungere la fase di transizione nella quale sembrano trovarsi le comunità coinvolte nelle epistole pastorali, tra una costituzione di tradizione giudaica, basata sul ruolo degli anziani (I Tim 5,17-22 e Tt 1,5 s.), e una che tende a imporsi, ruotando attorno alle figure del vescovo e dei diaconi
Anche l’escatologia è un terreno di diversità. Benché ugualmente interessati alla storia (cfr. il riferimento agli imperatori in Lc 2,1; 3,1; At 18,2; 25,11 s.; Ap 17,8-14), gli scritti di Luca e l’Apocalisse divergono nel loro modo di considerare l’escatologia. Più che sulla fine del mondo, Luca focalizza l’attenzione sull’itinerario individuale: che fine farà il singolo? Il ricco ingeneroso e il povero Lazzaro, il buon ladrone sulla croce, oppure Stefano? La caduta di Gerusalemme non è più un evento contato tra gli eventi escatologici come in Marco e Matteo, ma fa parte della storia, distinto da quelli della fine (cfr. Lc 19,42 ss.; 21,20-24). Se Luca non si interessa tanto della fine degli imperi, quanto piuttosto delle tappe della storia, l’Apocalisse di Giovanni, invece, riflette in prospettiva cristologica sulla fine globale dell’età presente: l’agnello sgozzato in piedi è vittorioso su Satana, alla fine Babilonia cadrà.


8.18
Lo spazio di un dialogo

Il cristianesimo vive dell’interpretazione della rivelazione di Dio nell’avvenimento della venuta, dell’incarnazione, della vita e della morte di Gesù Cristo. È fondato su un evento e non su una verità astratta. La verità del vangelo non si definisce con la formulazione di un consenso, è oggetto di un procedimento di interpretazione e di una ricerca in forma di dialogo aperto. La forma canonica come pluralità limitata indica come sbocco per la dialettica diversità/unità non una sintesi, un compromesso, un’armonizzazione, bensì uno spazio di confronto aperto, creatore di significazioni nuove. Con due esigenze, però, la fedeltà agli avvenimenti fondatori e la pertinenza attuale della rivelazione per l’uditore-lettore, che gli permette di dire che la rivelazione è per lui liberazione, promessa, chiamata alla responsabilità. Ne consegue una pluralità legittima delle interpretazioni della rivelazione.
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